Leonardo Sciascia – La
Sicilia come metafora – ed. Mondadori
Recensione di Maria
Carmen Lama
Un
libro atipico questo di Leonardo Sciascia, dal titolo La Sicilia come metafora,
costituito da una interessante intervista sottoposta
allo scrittore siciliano dalla giornalista francese, Marcelle Padovani, nel 1979.
Si
potrebbe già pensare che sia inutile leggere un libro così datato e che non è
nemmeno uno degli importanti romanzi-denuncia di Sciascia, salvo rendersi conto
che la sua vena critica, emergente con lucidità e severa obiettività in questa
intervista, possa ancora rivelarsi attuale.
E in
effetti, il libro è di un'attualità sconvolgente, quasi una premonizione, anche
perché basato su un filo rosso storico dal quale si evince che nel mondo
politico e sociale non ci sono delle novità positive, almeno dal tempo dei
Romani! E la condizione politica e sociale dei nostri giorni, purtroppo, ne
risulta candidamente rispecchiata, come se Leonardo Sciascia stesse parlando
del nostro tempo e non del suo.
E non
è una sorta di pessimismo insanabile dello scrittore questa sua visione delle
cose, in caduta, ma semplicemente il risultato sia di esperienze vissute in
prima persona, sia di una osservazione disincantata
della realtà: quella a lui prossima negli anni dell'intervista e quella a cui
egli risale, con una memoria storica nient'affatto corta e men che meno
indulgente verso ciò che non va assolutamente, specie in una società che vuole
dirsi democratica e civilmente evoluta.
Insomma,
semplicemente (sic!) una presa d'atto di una realtà che, nel suo inevitabile
divenire temporale, è di una staticità mortifera e mortificante, nel senso più
deleterio di questi ultimi due aggettivi, perché si
tratta di una tragica involuzione, di un ritorno continuo ad esperienze
politico-sociali e quindi anche storico-individuali, che non permettono di
prendere respiro, che non fanno avanzare di un passo la cultura in senso lato e
quella democratica in particolare, e che non liberano l'uomo dalle pastoie
burocratico-legislative, economico-finanziarie, in cui ve l'avviluppa lo strato
sociale che detiene il potere e che, chissà perché, è costituito sempre da chi
possiede di più in termini materiali, patrimoniali, e di buona dose d'arroganza
e di presunzione di legittimità delle sue funzioni, come un'investitura a vita
e/o simil-ereditaria.
Per
non parlare delle pastoie religiose e di quelle che avvolgono persino i
comportamenti più privati e il modo stesso di pensare (v. tutte le forme di
manipolazione del pensiero attraverso messaggi pubblicitari subliminali e
attraverso la distorsione di verità per interessi di parti politiche,
partitiche o idelologiche, ecc… che già facevano pesantemente sentire la loro
presa al tempo di questa intervista e del rispettivo libro di Sciascia).
Il
titolo di questo libro, oltrettutto, è emblematico, perché ci invita
immediatamente a chiederci: la Sicilia è metafora di cosa?
Se il
titolo vuole condensare
tutto il percorso della conversazione sostenuta nel libro, è da
chiarire subito che cosa intende comunicare.
Sciascia
afferma: «La
realtà tende a diventare ovunque “mafiosa”. La “linea della palma” risale
dall'Africa verso l'Europa di 50 centimetri l'anno. Guai alle conseguenze!».
Sembra proprio una profezia, almeno a giudicare da quel
che vediamo compiersi giorno per giorno sotto i nostri occhi.
Per questo, ritengo che l'attualità di questo libro non si
riferisca solo al nostro tempo, che ripercorre, ampliandoli e distorcendoli,
gli stessi modelli politico-sociali degli anni '70, ma molto probabilmente si
riferisca anche a un tempo futuro, nel quale le
conseguenze non potranno essere che un ulteriore ampliamento dei problemi e
deterioramento del sistema-Italia. A meno che non ci sia un soprassalto di
orgoglio nazionale che facendoci intravedere un baratro non ci imponga un
cambiamento culturale e mentale e una virata decisa verso un'auspicata quanto
necessaria moralità che partendo dal basso e dal privato individuale, coinvolga
in una spirale virtuosa il sociale e soprattutto, e in tempi brevi, il mondo
politico.
Per confermare ed analizzare in tutte le possibili
accezioni l'assunto del titolo di questo libro, l'intervista si snoda su
diversi temi:
-
inizia dall'identità dello stesso Sciascia, siciliano che ha
vissuto dentro il mondo del dramma
pirandelliano, dove identità e relatività costituivano (costituiscono!)
elementi di un “pirandellismo in natura”, ma che per superare la solitudine in
cui un tale mondo lo poneva, ha voluto aggrapparsi alla ragione, cioè all'altra
faccia delle cose e a un modo diverso di “ragionarle”
-
passa poi a parlare della “mafia” dandone una rappresentazione
quanto mai rivelatrice del potenziale distruttivo e disgregante che contiene e
facendo indignare nel leggere una sorta di “elogio
funebre di un mafioso”, dove dopo un distico in corsivo che dice: “In Lui gli uomini ritrovarono / una
scintilla dell'eterno rubata ai cieli”,
dà alcune informazioni sulla vita di quest'individuo e termina con
queste parole: “… dimostrò, con le parole
e con le opere, che la mafia sua non fu delinquenza, ma rispetto alla legge
dell'onore, difesa di ogni diritto, grandezza d'animo: fu amore”
-
prosegue con il punto di vista dello scrittore su “come si può
essere siciliani”
- e con il sostenere una “verità dello scrittore”, il
quale, grazie ad una sua esperienza diretta in politica, riesce ad essere molto
critico anche con il partito da lui appoggiato
- e si conclude, infine, con una disamina molto ben
articolata del potere - soprattutto se è comunista.
Questa, in breve, la successione dei capitoli del libro.
La lungimiranza di Leonardo Sciascia, basata -come ho già
scritto- su una lettura diacronica della vita politica in Italia (con cenni su
qualche altra nazione europea) e sull'osservazione dei dati di fatto del
periodo storico a ridosso del cosiddetto “affare Moro”, è veramente
sorprendente e, mentre invita a non perdere di vista il passato per non
ripetere gli errori commessi, dà una fotografia quanto più nitida possibile del
presente, purtroppo minato da troppi compromessi e corruzione e mafiosità dilagante,
e nello stesso tempo mette in guardia su un futuro che potrebbe non
distinguersi poi tanto dal presente e da quello stesso passato che sempre si
fatica a lasciarsi definitivamente alle spalle, giungendo però a dare anche
prospettive di speranza in un cambiamento possibile in positivo, se si
acquisisse la consapevolezza delle zavorre (politiche, morali, sociali,
culturali, economiche, commerciali… ecc… ecc..) che continuano a pesarci
addosso e della necessità-urgenza di abbatterle, alleggerendo e rimodernando il
nostro Paese, in modo che si abbia a buon diritto la certezza di vivere in uno
Stato veramente democratico e veramente civile.
È un libro che una siciliana come me, trapiantata da
alcuni decenni al Nord d'Italia, non poteva non leggere con la convinzione che
si può essere buoni italiani, ma solo a patto che ci si riesca a liberare dalla
marginalità in cui siamo continuamente spinti (lo vediamo ancora in quale
considerazione è tenuta l'Italia dai partners europei!),
rigettando una volta per tutte quella brutta etichetta
di mafiosità che infanga la Sicilia in primo luogo e ormai anche il resto
d'Italia dove la malavita organizzata ha prolungato i suoi tentacoli.
Pur
nel pessimismo di fondo che si possa rivoltare una condizione ormai secolare,
non ci resta comunque che il dovere di sperare nel cambiamento e negli uomini e
nelle donne che hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni e dell'Italia.