Parlarsi
dentro la colonia penale
di Ferdinando
Camon
"La
Stampa - Tuttolibri" 4 marzo 2012
Mi piacerebbe
sapere dove abita l'autrice, aspettarla davanti casa, seguirla di nascosto.
Vedere dove va, cosa compra, cosa fa, come si
comporta. Il libro
mette questa voglia. È un libro dalle visioni così lucide che si stagliano come un paesaggio lavato dalla tempesta. Una
lingua pulita, che ti pulisce il cervello.
Tutto si svolge in un altro mondo, separato da un muro
invalicabile, il mare, e “non c'è muro più alto del mare”. Chi è di là non deve
tornare di qua. Di là c'è una colonia penale, ci stanno i condannati per
diversi crimini, compresi i super-condannati dell'ergastolo. Perché tra i
diversi carceretti c'è anche un Carcere Speciale, nel
quale cambia tutto. Il carcere è rumore, grida,
baccano, mani tese, caos. Il carcere Speciale è silenzio e ordine. Le visite
dei parenti sono sottoposte a un protocollo schematico, che sembra applicato da
macchine più che da uomini. Per esempio non puoi importare bistecche crude ma
cotte sì, non un accappatoio ma un asciugamani con
maniche sì. Il racconto segue due visitatori, Luisa e Paolo, dall'imbarco sul
traghetto al trasferimento dentro l'isola (mai nominata), alla
notte, al giorno dopo, al ritorno. Luisa, contadina, va a trovare il marito,
violento e assassino, Paolo va a trovare il figlio, terrorista pluriomicida.
Parrebbe, e per buona metà del libro te l'aspetti, che
il libro sia la
narrazione della distanza tra moglie-marito e padre-figlio, e del loro
incontro-contatto. Nel contatto ti aspetti che i due che sono di là passino di
qua. La redenzione. Ma non avviene. Il libro non è qui, in questo
contatto. Il contatto è impossibile, impossibile la comunicazione. Nel
mondo di Luisa la moglie non può parlare al marito, e quando lei, appena
sposata, gli chiede silenzio, per ascoltare la natura, lui quasi la strangola. Nel
mondo di Paolo il figlio è l'anti-mondo. Fa il terrorista, non si sa mai dov'è.
Quando lo catturano, padre e madre esultano, finalmente sapranno
dove si trova. Ma quando viene a sapere che è
accusato di più omicidi, la madre si lascia morire. “Ma che hai fatto, figlio mio?”, e lui, radioso: “La rivoluzione”. Le
due violenze, del marito e del figlio, sono dette in misura perfetta, noi
lettori non chiediamo di più. E tuttavia il libro non è qui. Il libro è nel lento, timido,
casto avvicinamento di Paolo e Luisa, che si vedono
nella prima pagina, ma si fanno la presentazione a pagina 151. Ognuno fiuta
nell'altro una sofferenza analoga alla propria, che è indicibile a colui che è fonte della sofferenza, e non scopre
nessun'altra direzione in cui dirsi. Il racconto diventa questa scoperta, che
ognuno fa nell'altro. Lui conserva il ritaglio della foto di una bambina,
orfana per colpa del figlio. Si offre come padre sostituto? È una nuova
paternità? Lei prima che la storia finisca si prende quella foto, si offre come
compagna di lui? Intrecciano così le loro esistenze? L'isola è un
confessionale, lì si dicono cose indicibili altrove. Con sapiente delicatezza, il libro dice questa
indicibilità.
Francesca
Melandri, Più alto del mare, Rizzoli, pagg. 240, euro17,00
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