Identità
culturale e senso della morte attraverso gli Autori antichi
di Adriana Pedicini
Premessa
La morte trova nella letteratura ampio
spazio di indagine e di rivelazione, poiché la parola
letteraria è fantasia, mistero, angoscia, disperazione ma anche rivelazione e
avvicinamento alla verità.
Spesso la letteratura si è servita della morte, tema col quale dialogare.
La morte nella letteratura è anche
viaggio, incontro,
scoperta.
Si pensi al viaggio nel regno dei morti
nel mito di Enea: il mito costituisce il substrato della conoscenza, l'aspetto
primitivo e poetico della riflessione filosofica
Egli dunque va alla ricerca del padre e
lo ritrova. La morte è dunque rivelazione di una nuova vita. La nascita e la
morte costituiscono le traiettorie il cui filo unisce i due estremi. Le Parche,
nel mito greco, erano tre ed ognuna di esse reggeva un
filo: quello della nascita, della vita e infine della morte. La vita è nella
morte e la morte è nella vita.
Grazie al mito la morte si fa rinascita,
grazie alla religiosità la morte non è la fine di tutto, è l'inizio di un nuovo
viaggio. La morte nella letteratura si incontra con
Omero ma anche con la
Bibbia. Si incontra
col mito sul piano di una identità laica e si incontra con la fede sul piano di
una identità cristiana.
Tuttavia dalla notte dei tempi nelle
coscienze si agita non senza inquietudine l'eterno conflitto tra vita, tempo,
morte.
Abbiamo
perduto l'infanzia, poi la puerizia, poi l'adolescenza, tutto il tempo passato
fino a oggi è perduto: questo stesso giorno presente noi lo dividiamo con la morte. Non l'ultima
goccia vuota la clessidra, ma tutte quelle che sono prima trascorse: così
l'ultima nostra ora non fa la morte, ma la compie. Allora noi
arriviamo al termine, ma è un pezzo che siamo in cammino.(Seneca, Ad
Lucilium epist. XXIV)
Si supera la morte con una vita
esemplare che le generazioni future ricorderanno, si sfugge alla vecchiaia
scomparendo nel fiore degli anni, all'acme del proprio vigore. “Muore giovane
chi è caro agli dei” scriveva Menandro.
La morte: destino comune dell' umanità
“Grave est” “Sed humanum est”
Sembra uno slogan ma è questa la sintesi dell'atteggiamento del
pensiero antico di fronte al tema della morte.
Possiamo anche ritenere che tale concetto anticipi in qualche modo la sensibilità
cristiana, ma sia l'uno che l'altra sono l'approdo di
un lungo percorso culturale dalle svariate connotazioni antropologiche che ha
tentato di dare risposte all'interrogativo forse più inquietante dell'umanità.
Tale è l'obiezione infatti nella Consolatio ad Marciam (17,1) che
il filosofo Seneca, in risposta, rivolge a Marcia addolorata dall'irrimediabile
perdita del giovane figlio Metilio.
Chi nega infatti
che la morte sia una cosa dura da sopportare? Ma è
umano.
Vale a dire che la durezza della perdita non può non essere
compresa nella generale durezza della nostra vita, che deve esserci nota. La
tendenza ad attutire la sofferenza vorrebbe farci ritenere straordinario, non
umano, tutto ciò che ci colpisce così duramente. La vera cura, secondo Seneca,
consiste nel capire, nel non chiudere gli occhi di fronte alla realtà della
condizione umana.
Lo stesso tema è trattato nella Consolatio
ad Polybium (18, 9),
indirizzata a Polibio, liberto di Claudio, in
occasione della morte del fratello; gli argomenti della consolazione sono gli
stessi: l' inutilità del compianto, la non sofferenza dei morti, il valore del
ricordo, l'universale necessità della morte.
La morte è il non essere, ed io già so
cosa significhi il non essere. Dopo di me sarà ciò che fu prima di me.
Il nostro errore sta nel pensare che la
morte venga dopo, mentre essa, come ci ha preceduti,
così ci seguirà. Tutto quello che è stato prima di noi
è morte E anche finire di vivere ha lo stesso effetto: non essere. (Ad Lucilium epist. mor. 54)
In una lettera inviata all'amico Marullo
per la morte del suo bambino, morte che egli non ha sopportato virilmente, Seneca si esprime con fermezza nell'esortare l'amico
a mostrarsi resistente ai mali e a non cedere al dolore. Gli argomenti usati
sono tratti dalla filosofia stoica:
“ Credimi, la sorte può toglierci la
presenza fisica di quelli che amiamo, ma gran parte di essi rimane in noi…….
Se siamo coscienti che presto seguiremo
quelli che abbiamo perduto, dobbiamo essere più sereni”
Infatti
siamo soggetti tutti allo
stesso destino.(ad Luc. Ep. 99, 1-6)
In altri passi il filosofo mostra di voler superare il grande tema del “non
essere” con la prospettiva di una vita oltre la vita.
Dopo la morte ci attende un'altra
nascita, e il giorno che noi temiamo come l'ultimo
della nostra vita, è, in effetti, il primo dell'eternità
Attraverso il breve decorso di questa
vita mortale, ci si prepara a quell'altra migliore e più lunga. Infatti, come
il grembo materno ci tiene nove mesi non per sé, ma per prepararci a quel luogo
in cui poi veniamo alla luce già in grado di respirare
e di resistere all'aria libera, così, attraverso il periodo che va
dall'infanzia alla vecchiaia, diventiamo maturi per un altro parto. Ci attende
un'altra nascita, un altro ordine di cose…..rivolgi il
pensiero a quell'ora decisiva: non è l'ultima per l'anima, ma per il corpo. (Ad Lucilium 102, 21-26)
Il senso della morte e la precarietà
della vita
Il senso della morte, allargato alla condizione umana, è un
pensiero fisso del poeta ellenistico Leonida di Taranto..
Non bisogna legarsi alla vita , come la
vite si attacca al palo, ma migrare all'altro mondo quando la vecchiaia è
venuta. Il tempo passato prima della nascita e quello che passerà dopo la morte
è infinito, mentre la vita dell'uomo, breve e spiacevole, peggiore della morte,
dura un istante, meno di un istante.
La comune realtà della morte, per il Poeta, viene come anticipata dal decadimento
che già corrode ogni istante della vita (epigramma A.P.VII 472)
che risulta essere un monito per tutti gli uomini allorché invita a guardare
alla finitezza e alla precarietà
dell'esperienza esistenziale in confronto dell' eternità.
Infinito fu il tempo, uomo, prima/ che
tu venissi alla luce, e infinito/ sarà quello
dell'Ade. E quale parte/ di vita qui ti spetta, se non quanto/ un punto, o, se
c'è qualcosa più piccola/ d'un punto? Così breve la
tua vita/ e chiusa, e poi non solo non è lieta/ ma assai più triste dell'odiosa
morte./ Con una simile struttura d'ossa/ tenti di
sollevarti tra le nubi/ nell'aria! Tu vedi, uomo, come tutto / è vano:
all'estremo del filo, già/ c'è un verme sulla trama non tessuta/ della spola.
Il tuo scheletro è più tetro/ di quello d'un ragno. Ma tu, che giorno/ dopo giorno cerchi in te stesso, vivi/
con lievi pensieri, e ricorda solo/ di che paglia sei fatto.
Il dolore delle morti immature
Abbiamo a disposizione
nelle letterature classiche molti esempi di poesia sepolcrale in cui si
compiangono soprattutto la morti immature. Non mancano
a questo proposito in Marziale, originale poeta latino, squarci di poesia
dolente, come quando egli sembra intristirsi davvero per la morte della piccola
Erotion, una servetta nata in casa sua e morta
improvvisamente alla tenera età di sei anni. Gli epigrammi a lei dedicati
trasudano di vero dolore.
A t,e Frontone,
(suo) padre, a te, Flacilla, (sua) madre questa
bimba, boccuccia e delizia mia io affido perché la piccola Erotion
non tema le nere ombre e il ceffo mostruoso del tartareo cane. Stava per
compiere il sesto inverno brumoso, se altrettanti giorni fosse
vissuta ancora…..Le sue molli ossa la dura zolla non copra, né a lei, o terra,
tu sia grave: non lo fu essa a te. (Ep.34)
Altri epigrammi composti in occasione di morti giovani sono il L.I,101 composto per il suo
giovane segretario Demetrio, morto a soli diciannove anni, e quello composto
per la morte di Canace, una bimba scomparsa a sette
anni, dopo che un male incurabile le aveva progressivamente corroso il viso
(XI,91)
La libido mortis
Accelerare la fine della vita, anzi
prevenire in un certo senso il destino, è un brama che
talvolta assale gli esseri umani, anche molto giovani. Varie sono le
interpretazioni di questo gesto estremo. Nella sensibilità moderna appare come
un gesto di debolezza, non così appaiono le morti di alcuni personaggi
rappresentati dagli antichi autori.
In Lucano il cesariano Vulteio, resosi conto dell'agguato in cui erano
caduti ad opera dei pompeiani
incita, in un gesto
di estrema superbia e di sfida, i suoi compagni alla morte.
O giovani
prendete le decisioni estrema: nessuno dispone di una
vita breve se in essa ha il tempo di scegliersi la morte, né inferiore è la
gloria dell'olocausto supremo, o giovani, se affronterete con decisione il fato
che incombe su di voi: dal momento che tutti gli uomini ignorano quel che li
attende, è identico motivo di lode per l'animo sia perdere gli anni di vita sperati
sia affrettare la fine nel momento estremo, purché sia la nostra iniziativa ad
accelerare il destino. (Lucano Pharsalia,IV, 481-484)
Altro esempio di suicidio come scelta
estrema a seguito del tradimento d'amore, è quello della
virgiliana Didone.
Allora Didone, tremante, esasperata
per il suo scellerato disegno, volgendo
attorno gli occhi iniettati di sangue, le gote sparse
di livide macchie e pallida della prossima morte,
irrompe nelle stanze interne della casa
e sale furibonda l'alto rogo, sguaina
la spada…(passim)
premé la bocca sul letto.
"Moriamo senza vendetta - riprese. - Ma moriamo. (Virgilio, Eneide IV, 642-705)
Commovente in
Sofocle il suicidio di Aiace Telamonio, che, tornato
in sé dopo l'orrenda strage, compiuta per errore, di un gregge di pecore, “lava”
l'onta della vergogna di fronte all'opinione pubblica con la morte,
trafiggendosi con la spada donatagli da Ettore. Umiliato dalla sua stessa
azione, vittima del riso dei nemici è attraversato da
un impetuoso desiderio di morte nella sua consapevole disperazione (Sofocle
Aiace vv. 470 e segg.)
Ora che devo
fare?...
Volere una
vita troppo lunga è vergogna quando non c'è nessuna speranza di cambiare la sciagura. Che
piacere ha in sé il giorno che si aggiunge a un altro giorno, che avvicina e
ritarda la morte? Non stimo niente un uomo che si accende di vane speranze. Chi
è nato nobile deve vivere bene o morire bene; questo è tutto.
Ma
non serve continuare a lamentarsi invano; è il momento di agire, e presto.
O morte, morte, vieni, guardami!
Morti illustri
La fermezza di fronte alla morte mostrata in
momenti di particolare gravità da uomini illustri o da semplici cittadini ha
creato pagine bellissime di eroiche virtù, che rifulgeranno anche negli eroi delle epoche
successive e fino ai nostri giorni. Lo storico Tacito ce ne parla negli Annales.
Nell'anno 65 d.C. nelle file dell'opposizione al principato si
formò una vasta congiura, alla quale parteciparono, oltre a membri dell'aristocrazia,
anche il prefetto dei pretoriani Fenio Rufo e molti ufficiali. La congiura fu scoperta grazie alla
delazione di un liberto. Ne seguì una sanguinosa repressione, in cui congiurati
effettivi o presunti, oppure uomini invisi a Nerone, furono uccisi o costretti
a darsi la morte. Tra i nomi più illustri
Seneca, il poeta Lucano, Petronio Arbitro, Trasea
Peto, e tanti altri. Il principato di Nerone finiva così in un bagno di sangue, che
decimò gravemente l'aristocrazia senatoria.
Morte di Seneca (Annales, XV, 60-64)
La morte di Seneca è la morte bella e serena di un eroe stoico,
come prescrivevano i dettami che il filosofo aveva a
lungo predicati. Egli conforta gli amici piangenti e li richiama alla fermezza
stoica contro le avversità.
Morte di
Petronio (Ann. XVI, 19)
Petronio, uomo raffinato, arbiter elegantiarum, accusato di aver aderito alla congiura pisoniana, fa del
proprio suicidio il degno epilogo di una vita raffinata. Non volle
intrattenersi in discorsi elevati, o in gesti eclatanti
che potessero in qualche modo creargli la lode del fermo coraggio. Continuò
anche nell'ultimo giorno a vivere secondo il suo habitus, sedette a banchetto e
si abbandonò al sonno perché la morte, per quanto obbligata, avesse un' apparenza di casualità. Ebbe solo il gusto di elencare
le infamie del Principe e di inviargliele, spezzando poi l'anello col sigillo,
perché non servisse a trarre altri alla rovina.
Morte di Epicari (Ann. XV, 57)
I primi congiurati dapprima negano, poi cadono in contraddizione.
Nerone allora fa sottoporre a tortura la liberta Epicari,
che, arrestata, era riuscita a sviare i sospetti. Sottoposta in carcere a ogni
genere di tortura, era riuscita a non cedere. Il giorno dopo, ormai sfinita,
infilò il collo nel laccio da lei stessa preparato,
dando un esempio fulgido, in quanto donna, di forza d'animo, a difesa di uomini
estranei a lei sconosciuti, mentre uomini liberi, senatori e cavalieri romani,
non esitavano a tradire quanto di più
caro avevano, pur di aver salva la vita.
La commentatio
mortis nella cena di Trimalchione
La stoltezza umana arriva perfino ad
ipotizzare la persistenza di differenze sociali varcata la soglia della morte e
ci sono persone che si affannano affinché tale stato sia ben visibile. Se ne
preoccupa Trimalcione, il protagonista del romanzo
petroniano, il quale ogni sera organizza per sé dei macabri funerali costringendo
tutti i presenti a piangerlo. Durante la famosa Cena, Trimalcione
si finge morto e fa celebrare il suo funerale per controllarne da vivo lo
splendore: si fa portare i paramenti funerari, l'ampolla dell'unguento, del
vino. Ordina poi di portare il lenzuolo mortuario e la toga, apre l'ampolla
contenente l'unguento e unge i commensali. In seguito fa
entrare nella sala i suonatori di corno e uno schiavo suona così forte da
svegliare il vicinato. Agli squilli dei corni accorrono i vigili del fuoco, che
pensano ad un incendio,
Sopravvivenza
Una doppia “religione” tende a superare l'angoscia provocata dal
pensiero della morte: una forma per così dire laica e una propriamente
religiosa.
Gli Autori antichi ammettevano che l'unica possibilità di
sopravvivenza consistesse nel ricordo di una vita esemplare.
Certo non potrà
avere nessun timore quegli per cui la morte è dolcemente attesa; ma neppure
temerà chi pensa che l'anima viva solo finché è trattenuta dal vincolo corporeo
e che, sciolta da esso, subito si disperda, se agisce in modo da essere utile
anche dopo la morte. Per
quanto egli venga sottratto alla vita dei suoi,
tuttavia “torna alla memoria la grande virtù dell'uomo e la grande nobiltà
della sua gente” (Virg. Eneide, IV, 3-4). Pensa quanto ci giovino i buoni
esempi; comprenderai che il ricordo degli uomini grandi non ci è meno utile
della loro viva presenza. (Seneca, Ad Lucilium
epist. mor. 102).
Un esempio fulgido di virtù militari e civili degno di
sopravvivere a se stesso nella memoria dei posteri viene
delineato nell'”Agricola” da Tacito.
Se vi è un luogo per le anime dei
giusti, e se, come i filosofi vogliono, le grandi anime non si spengono col
corpo, riposa in pace; e richiama noi, tuoi cari, da sterili rimpianti e
lamenti femminei alla contemplazione delle tue virtù, cui non si addicono né
lacrime, né gemiti. Più vale a onorarti la stima, una lode
senza fine e, se ne siamo capaci, l'imitazione di te: ecco il vero onore, la
vera prova d'amore….venerino la memoria del padre e del marito in modo da
rivivere sempre nel cuore le sue gesta e le sue parole, da chiudere nell'animo
l'immagine e i tratti del suo spirito più che del corpo….immortale è l'immagine
spirituale (forma mentis) che tu
puoi serbare e riprodurre con la tua personale condotta di vita. Tutto
ciò che in Agricola abbiamo amato, abbiamo ammirato rimarrà fermo nell'animo
degli uomini per sempre. (Tacito, Agricola, 46)
La paura della morte
Tuttavia ammettendo pure la
sopravvivenza nel ricordo o la rinascita nell'al di là
secondo il principio dell'immortalità dell'anima, non si può nascondere che in
molti la morte in quanto tale fa paura,
al punto che alcuni arrivano a darsi la morte per paura della morte.
Ci soccorre a questo punto Epicureo nella lettera a Meneceo
1 [...] Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte,
poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di
questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per
noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito
tempo, ma togliendo il desiderio dell'immortalità. Niente c'è
infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di
temibile c'è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte
non perché quando c'è sia dolorosa ma perché addolora l'attenderla; ciò che,
infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più
terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte noi non
siamo più. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi
non c'è, e i morti non sono più. Ma i più, nei confronti della morte, ora la
fuggono come il più grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il
saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla
vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più
abbondanti, ma i migliori, così del tempo non il più durevole, ma il più dolce
si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto,
non solo per quel che di dolce c'è nella vita, ma perché uno solo è l'esercizio
a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice:
“bello non esser nato,
ma, nato, passare al più presto le soglie dell'Ade”.
Ancora, si ricordi, che il futuro non è
né nostro, né interamente non nostro: onde non abbiamo
ad attendercelo sicuramente come se debba venire, e non disperarne come se
sicuramente non possa avvenire. (Epistola a Meneceo, 124-127)
Alla tesi epicurea si contrappone
quella stoica che insegna la meditatio mortis , la sola cosa che invece libera
dalla paura della morte, insegna a morire (e a vivere), dona piena sicurezza di
fronte a un fatto che è effetto di una legge naturale.
Noi, assai dissennati, crediamo che
essa [la morte], sia uno scoglio, mentre è un porto, delle volte da
cercare, ma mai da rifuggire, nel quale se qualcuno è spinto nei primi
anni [di vita], non deve lamentarsi più di chi ha navigato velocemente.(Seneca,
Lettere a Lucilio, 70)
La morte non deve fare paura, secondo
Seneca, perchè non è un momento improvviso ma un
processo naturale e graduale: si muore un po' ogni giorno; l'importante è saper
impiegare bene il tempo che ci è stato dato. La vita non è dunque né lunga né breve, ma giusta, e il tempo è l'unica cosa che veramente ci
appartiene, perchè possiamo scegliere come
impiegarlo.
Si
muore un po' ogni giorno….la vita non è breve se la
sai usare (Sen. De brevitate vitae)
Per concludere, prendendo coscienza della
ineluttabilità della morte, facciamo nostro il motivo del “memento mori” ("ricordati
che devi morire"), convinti che la vita vada amata giorno per giorno con
impegno e con gioia, con spirito di sacrificio ed altrettanto entusiasmo
affinché nessun attimo venga sciupato, ma ogni alba sia per tutti l'eterno
meraviglioso miracolo, prima che sorella Morte, come amava definirla San
Francesco, bussi al nostro capezzale.
Infatti solo con tale consapevolezza del suo
“modo di essere”, della sua finitezza, l'uomo può assumere la sua presenza nel
mondo come esperienza “religiosa” capace
di orientare la sua vita e la sua relazione con gli altri esseri umani in una
dimensione per così dire universale.