Muto come un pesce, di massimolegnani
Muto come un pesce
di massimolegnani
È così difficile scambiarsi le parole, far sì che arrivino intatte, inequivocabili, così come sono partite; il più delle volte, nel breve tragitto da un viso all'altro, si deteriorano nell'aria, perdono l'intenzione iniziale, si distorcono all'orecchio dell'arrivo. E una volta che si è innescato l'equivoco, non lo recuperi più il senso originale del tuo dire, anzi, più tenti di correggere, puntualizzare, chiarire e più cresce il malinteso.
Le parole sono sabbie mobili, più cerchiamo di toglierci dall'impaccio agitandoci, arrabbiandoci, e più affondiamo nel pantano delle nostre voci che gracidano peggio delle rane. L'unica è tacere, restare immobili, guardarsi muti, ritrovare il dialogo antico degli sguardi prima che il linguaggio, quella pessima primordiale invenzione dell'uomo, inquinasse la spontaneità dei gesti silenziosi.
Il silenzio l'ho imparato da bambino quando arrivò in casa un pesce rosso. Già introverso di mio, soverchiato dalle piccole prepotenze di mia sorella e dai rimproveri di mamma, trovai in Clemente, così lo avevo subito battezzato, il mio interlocutore ideale. Con lui non c'era bisogno di parole, passavo le ore a guardare le sue evoluzioni, l'eleganza che metteva nello star fermo, come sospeso nella boccia di vetro, la serenità un po' triste del suo sguardo, l'incessante ripetitività sempre nuova con cui nuotava nel suo minimo mare. Mi sembrava un'intesa perfetta, il vetro trasparente a separarci, gli occhi curiosi a comprenderci l'un l'altro, il silenzio a sancire la nostra strana amicizia. Poi un giorno mi è venuta voglia di parlargli e lì sono cominciati i guai. Gli facevo discorsetti sciocchi mentre gli davo da mangiare, desideravo che lui mi rispondesse e mi sembrava a volte che muovesse le labbra in un tentativo di dialogo, ma non uscivano parole dalla sua bocca. Parla, dai- gli dicevo- cosa ti costa? E lui a fissarmi esterrefatto per l'assurdità della richiesta. Studiai a lungo il suo labiale muto e feci una scoperta che mi lasciò basito: Clemente, col suo fare silenzioso, educato, vescovile, mi aveva appena detto vaffanculo, scandito a chiare lettere. Crollava un mito e iniziò una guerra. D'impulso gli risposi stronzo, muovendo solo le labbra senza emettere suono, perché non mi sentisse mamma. Poi, pieno di rabbia, pretesi le sue scuse, ma Clemente alle mie parole rispose ignorandomi, diede un vigoroso colpo di coda e se ne andò all'altro estremo della boccia. Chiedimi scusa, ripetei quasi piagnucolando, ma lui non si dava per inteso, anzi ebbi l'impressione che ancora borbottasse tra sé quella parola offensiva. Non ci vidi più, presi il colino da tè e lo immersi nella boccia. Non fu difficile pescarlo a quel modo. Trassi Clemente dall'acqua e lo deposi sul tavolo, forza chiedimi scusa, gli sussurrai con quel candido sadismo che solo i bambini. Il pesciolino rosso boccheggiava a vuoto dando guizzi sempre più sfiniti. Eravamo a un punto morto e io stesso non sapevo che fare, avrei potuto anche perdonarlo che in fondo ero un bambino d'animo buono. Gli spruzzai addosso qualche goccia d'acqua come facevano i nazisti con una secchiata d'acqua a far rinvenire il prigioniero che stavano torturando. Attesi la sua reazione avvicinando l'orecchio alla sua bocca: forse fu una suggestione o forse davvero Clemente in agonia emise un rumoretto dalla bocca, una roba a metà tra un rantolo e un rutto. Nella mia infinita bontà, mi accontentai di quella risposta appena abbozzata e lo ributtai in acqua. Ma la nostra amicizia era ormai compromessa, adesso che Clemente aveva imparato a parlare venne improvvisamente a mancare il solido legame che ci aveva unito. Il silenzio denso, fatto d'intesa e reciproco rispetto.