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Tutto il tempo sul petto, di Carla De Angelis, edito da Fara e prefato da Stefano Martello

Tutto il tempo sul petto, di Carla De Angelis, edito da Fara e prefato da Stefano Martello

Tutto il tempo sul petto Poesie (2006 – 2021) – Carla De Angelis – Fara – Pagg. 240 – ISBN 978-88-9293-025-4 – Euro 15,00




Indagine su una poetessa al di sopra di ogni sospetto


Prefazione di Stefano Martello


Credo che vi sia un contenuto “fluido”

come c'è un contenuto “solido”,

che alcune poesie possano avere una forma

come ha una forma un albero,

e altre invece come l'acqua versata in un vaso.

(Ezra Pound, Uno sguardo indietro)



Robert Graves – uno dei più strenui difensori delle ragioni poetiche e, più in generale, della scrittura come opera meritevole e necessaria in una epoca (la sua, e un po' anche la nostra) lacerata dal primato dell'interesse economico e dall'influenza del fanatismo politico – scrive, a proposito della raccolta poetica,

che se ben fatta è un completo dispensario di medicine per le più comuni malattie mentali, e può essere usata sia per la prevenzione sia per la cura.

Pur fidandomi del giudizio del letterato inglese, non ho potuto fare a meno di consultare il bugiardino allegato al dispensario.

Un po' per i tempi pandemici che, da oltre un anno, frequentiamo tutti, tra impennate canore di amor proprio e di Patria sui balconi (per chi ce li ha) e vorticose cadute digitali nella Zoom experience; tra autocertificazioni e sigarette clandestine fuori dal portone di casa, per darsi gratificanti arie da

carbonaro populista.

Un po' per senso di buona educazione nei confronti dell'odierna Autrice, a 15 anni dal nostro primo fortuito incontro e nel ricordo tenero e consapevole degli impatti, delle conseguenze e delle parole che quello stesso – in maniera dirompente e per niente premeditata – attivò.

Un po' per il sentimento ondivago – di rispettosa distanza e, nel contempo, di ammaliante vicinanza – che da sempre nutro nei confronti della formula “tutte le opere”, a prescindere dall'argomento, dall'autore o dall'autrice.

Sia chiaro, nessuna posizione equivoca o, peggio, nessuna volontà di resistere in mezzo a un guado; piuttosto una fragile – e, tutto sommato, innocua – incoerenza che credo propria di tutti gli uomini e le donne che hanno scelto di rivelare pubblicamente parole e pensieri.

Della raccolta di tutte le opere amo la funzione di riconoscimento, nel momento in cui quelle stesse pagine legittimano il nome e cognome dell'Autore/Autrice, certificandone le parole in una dimensione spaziale ampia ed estesa. In cui, per dirla tutta, è poco probabile la possibilità di imbrogliare, dopando periodi e trame e personaggi e pensieri e metriche.

Nello stesso modo, e con la stessa intensità, dell'opera omnia odio la capacità di fotografare il percorso compiuto; di assemblare – per di più, volontariamente e, a tratti, entusiasticamente – il fascicolo che il pubblico ministero esibirà sul banco dell'accusa, chiedendo a quell'imputato – il cui nome riecheggia sulla prima pagina – di rispondere delle proprie parole, di motivarne la scelta e di inquadrarne il contesto.

E, qualche volta, di tradirne la fragilità. Per tutti questi motivi, ho scelto di assolvere il compito di prefatore di questo libro allontanandomi dalla posizione

empatica che solitamente sorregge le mie suggestioni per affidarmi a una cinica e melmosa rilettura critica delle pagine.

Per disinnescare quelle potenziali risultanze prima che si trasformino

in domande odiose e oziose.

Le tracce, d'altronde, sono varie e disseminate lungo tutto il sentiero della nostra – mia e di Carla – comunione di parole.

In Salutami il mare (Fara 2006), per esempio, annoto nella Prefazione come nei versi brevi e duri dell'Autrice non ci sia spazio per fronzoli e per virgole, perché i primi devierebbero il senso finale delle parole e le seconde rallenterebbero un percorso di lettura che deve essere continuo come una salita in montagna dove non ti puoi e non ti devi fermare a metà strada, perché altrimenti i muscoli si induriscono e la mente si svuota alla ricerca del riposo.

E la vetta non la raggiungi più.

Si tratta, per ora, di un indizio tutto sommato labile, di una impronta parziale che poco toglie e nulla aggiunge. Ma, come acutamente ci riferisce Henry David Thoreau nel suo diario – alla data 11 novembre 1854 – certe prove indiziarie

sono molto convincenti, come per esempio quando trovate una trota nel latte. Insomma, non possiamo permetterci di mollare la presa.

In A dieci passi da Urano (poesie di tentata conquista) (Fara 2010), paragono le poesie di Carla a vere e proprie istantanee che traducono sensazioni, episodi e giornate in poche illuminanti parole, filtrando ciò che è utile da ciò che è meno utile (o ridondante) e setacciando l'essenza del verso.

Ciò che il cervello di Carla ha elaborato in ogni sua soffusa angolazione.

Ciò che il cuore di Carla ha fretta di espellere.

Per onestà intellettuale – ma soprattutto per disarmare la domanda già carica di un pubblico ministero gongolante – ritengo anche doveroso smentire, già da ora, la possibilità di una scrittura istintiva che all'urgenza sacrifica l'analisi e la

conseguente scelta delle parole.

Che rimane, al contrario, serrata, tormentata e potenzialmente snervante. Almeno, per uno che – come chi scrive – è sottoposto quotidianamente alla tortura della consegna e che ad essa è dispostissimo a sacrificare manciate di lirismo in cambio di parole che – pur se non perfettamente accordate – servono allo scopo.

Segnalo, inoltre, per il verbale (di cui, per italica consuetudine, non possiamo/vogliamo/dobbiamo fare a meno) la presenza, nelle pagine finali del libro di una bonus track apparentemente fuori posto di cui – nonostante la mia firma accanto a quella di Carla – non riesco a ricordare compiutamente il

motivo. Si rivolge, fin dal titolo, al Lettore (e, quindi, per non far infuriare i sostenitori di genere, anche alla Lettrice) e cita la sincerità e il coraggio oltre la giustezza delle parole e dei pensieri.

Ancora qualche indizio; magari quella impronta è un po' più chiara e definita, ma ancora non ci dice nulla di certo.

Un filino seccato per l'inconsistenza delle prove a discarico sin qui raccolte, proseguo ne I giorni e le strade (Fara 2014), di cui ricordo per ragioni personali la genesi del mio – tutto sommato, superfluo – apporto.

La nebbia sembra diradarsi. Noto, e annoto, parole serrate, aiutate da un titolo – Piccolo viaggio nell'anima poetica tedesca di Carla De Angelis – in cui proprio l'assonanza geografica sembra voler suggerire un metodo di scrittura immune da qualunque dubbio. Certo e solido come il condottiero di fronte all'occhio del ritrattista. Ne prelevo qualche frammento:

Le poesie di Carla sono scolpite nella quotidianità; le poesie di questo libro sono state composte su di una curva della Portuense, mentre Carla pagava il pane, mentre ragionava con il meccanico su come rimediare una ammaccatura. Mentre cercava, più prosaicamente, di recuperare tempo. Le poesie del libro non sono riparate; beccano il freddo, l'ignoranza e, qualche volta, uno spruzzo di sole da parte di una persona che si è svegliata senza troppe preoccupazioni in testa.

Mi sembrano – ma su questo desidero e auspico un confronto condiviso – parole molto nette, che non lasciano – che non vogliono lasciare – spazio ad interpretazioni altre, scritte paradossalmente in un periodo personale in cui l'incertezza dominava la mattina, il pomeriggio e la sera. Disturbando

la notte.

È dunque – quello riportato – un giudizio di cui dubitare?

Magari frettoloso – per barrare l'incombenza sull'agenda – e compiacente, per non rimanere coinvolto in defatiganti conversazioni critiche e tornare a pensare ai guai che dominavano la scena?

La mia stessa vicinanza con Carla (allora come ora) rischia di diventare una zavorra emotiva deviando il corso dell'indagine, mentre il pubblico ministero sta già valutando l'ipotesi di farmi deporre di fronte a qualche commissione deontologica.

Serve – fortissimamente serve – un coup de théâtre; una testimonianza talmente autorevole e inoppugnabile da non poter essere messa in discussione.

Talmente disinteressata ed estranea da non poter essere sospettata di alcuna connivenza e/o conflitto d'interessi.

Serve un Editore, che si mette davanti all'arte con le sue grosse mani terrene, i suoi occhiali e i suoi conti.1

Il solito malizioso Pm potrebbe obiettare – pescando subdolamente nella stessa citazione – che un buon editore deve saper mentire, per poter sostenere anche i libri di cui non sia convinto.2

Ma è anche vero che, in questa specifica occasione, il motivo del contendere non riguarda un solo libro ma una serie di libri e, più in generale, un percorso lungo 15 anni.

Insomma, ce l'abbiamo? Sì, e conosciamo anche il luogo e la via di residenza nonché la sua utenza cellulare privata.

Dopo venti minuti di maledizioni su quel vizio di impicciarsi anche della parola scritta dei suoi autori, è lo stesso Alessandro Ramberti a citarci alcune sue illuminanti notazioni contenute nella Prefazione all'ultimo Mi fido del mare (Fara

2017), nel momento in cui elogia la capacità della De Angelis di scuotere la superficie comoda e omologante dell'apparenza e dei Mi piace ponendosi in ascolto di sé stessa, degli affetti e della realtà di questo mondo.


Consummatum est

Mi accendo una sigaretta, una delle tante che Carla avverte e condanna, quando chiacchieriamo per telefono.

Avrei voluto essere più originale, più in linea con la componente celebrativa di questa raccolta.

La sensazione – Vi prego, concedetemi l'indulgenza sul termine – è che dal 5 agosto 2006 non sia cambiato nulla.


1 Dal Discorso in omaggio a Arnoldo Mondadori pronunciato da Valentino Bompiani. La citazione esatta recita: “Chi più sproporzionato di un editore che si mette davanti all'arte con le sue grosse mani terrene, i suoi occhiali e i suoi conti?”

2 La citazione esatta recita che un editore […] è fatto più spesso di difetti che di qualità. Deve essere, per esempio, aggressivo, prepotente e colonialista. Deve spingere la propria ambizione fino alla vanità, per fare propria la vanità segreta dello scrittore. Deve saper mentire per poter sostenere anche i libri di cui non sia convinto. Deve, talvolta, dare credito più all'istinto che al raziocinio.