Sulla
pelle viva.
Come
si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont
di
Tina Merlin
Edizioni
Cierre
Storia
Pagg.
196
ISBN
9788883141218
Prezzo
Euro 11,50
Una
tragedia annunciata
Alle
22,39 del 9 ottobre 1963 una gigantesca frana di oltre 250 milioni di
metri cubi di terra e rocce scese dal monte Toc nell’invaso
realizzato grazie alla diga del Vajont, sollevando un’onda
gigantesca che spazzò via tutto quello che incontrava nello
scendere a valle e che cancellò letteralmente Longarone,
provocando, oltre alle distruzioni, quasi duemila vittime. Fatalità,
evento imprevedibile, negligenza? All’inizio si invocò
l’imprevedibilità del fatto, ma ben presto vennero alla
luce decisioni ed eventi antecedenti che smontavano facilmente questa
ipotesi, anche perché la giornalista dell’Unità
Tina Merlin aveva scritto della estrema pericolosità
ricollegabile all’edificazione della diga già a partire
dai primi lavori, avviati nel 1957, pur in assenza di una valutazione
geologica di un territorio dalla particolare fragilità tanto
che la montagna che sovrastava i paesi di Erto e di Casso si chiama
Toc e toc indica nel dialetto locale qualcosa di guasto, di avariato.
Infatti chi abitava lì era a conoscenza dell’instabilità
di quel monte, già oggetto in passato di altre frane, e gli
unici che sembravano non saperne nulla erano proprio gli azionisti e
dirigenti della SADE Società Adriatica Di Elettricità
che si erano messi in testa di costruire la diga più alta
d’Europa in modo da realizzare un invaso gigantesco. Una
perizia geologica in realtà esisteva, ma era stata predisposta
ad arte per consentire di intraprendere un’impresa che
altrimenti non sarebbe stata autorizzata. Purtroppo all’epoca
c’era uno stretto legame di interessi fra il governo e la SADE,
di cui beneficiavano entrambi, così che allegramente venivano
saltate tutte le necessarie procedure, perfino per gli espropri dei
terreni che sarebbero stati sommersi. La Merlin, che appoggiava i
moti di protesta delle popolazioni locali, che temevano, a ragione,
per la loro incolumità, fu addirittura accusata di diffondere
notizie false e tendenziose atte turbare l’ordine pubblico, ma
il Tribunale di Milano la assolse. Del resto tutta la zona aveva un
equilibrio instabile, come testimoniato dalla colossale frana di 3
milioni di metri cubi, staccatasi dai monti Castellin e Spiz il 22
marzo del 1959, precipitata nel sottostante lago artificiale,
provocando un’onda che superò la relativa diga di almeno
7 metri e fu solo per fortuna che ci fu un’unica vittima, un
operaio che transitava lungo il percorso interessato dallo
smottamento e il cui corpo non fu mai ritrovato. Dato che anche
quell’invaso era opera della SADE questa cominciò a
preoccuparsi, tanto più che una perizia geologica non di parte
(uno degli estensori era il figlio del progettista della diga del
Vajont) aveva evidenziato l’esistenza di un pericolo
gravissimo, di cui si ebbe una prova il 4 novembre 1960 quando dal
monte Toc si staccò una frana di 800.000 mc, con caduta nel
lago artificiale e conseguente ondata alta una decina di metri. Non
ci furono vittime, ma questo dimostrava che mano a mano che le acque
dell’invaso salivano (si era già a 650 metri) le spinte
sui fianchi tendevano a innescare fratture nel terreno. A questo
punto si decise di abbassare il livello, tanto più che si era
evidenziata una lunga crepa nel fianco della montagna. Tina Merlin,
nell’occasione, scrisse un articolo per l’Unità
che riportava fra l’altro queste parole:”Si
era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della
popolazione, si denunciava l'esistenza di un sicuro pericolo
costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre
più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a
cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che
continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che
abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere
certo tranquilli.”.
Si
tentò allora di mettere in sicurezza l’impianto, ma era
troppo tardi, perché una volta che si viene a gravare su un
difficile equilibrio è inevitabile che, prima o poi, se ne
paghino le conseguenze. Lo sapevano dunque quelli della SADE e la
possibilità che avvenisse un disastro era notevolissima.
Considerata
che era imminente la nazionalizzazione delle imprese di energia
elettrica, con lauti guadagni per queste, dopo aver ridotto il
livello del lago, si aumentò di nuovo, in modo da arrivare al
collaudo necessario per la cessione allo stato, ben sapendo che in
questo modo il rischio sarebbe aumentato in modo massiccio ed è
così che si giunse a quella famosa notte del disastro,
nonostante, monitorando la montagna, ci si fosse accorti del pericolo
enormemente incrementato, a cui si cercò di rimediare
abbassando di nuovo il livello. Era però troppo tardi e il
resto lo conosciamo.
Il
libro della Merlin è un atto di accusa, chiaro e
incontestabile, contro chi per denaro, e ben sapendo che il suo
comportamento poteva provocare vittime, volle procedere lo stesso, un
reato non da omicidio colposo, bensì quasi da omicidio
volontario, ibrido peraltro non contemplato dal nostro codice penale,
così che l’unica accusa fu quella di omicidio colposo.
Non vado oltre perché occorrerebbero chissà quante
pagine; mi limito solo a evidenziare il valore di questo libro. Tina
Merlin è brava, perché unisce allo stile giornalistico
una impronta narrativa, grazie alla quale ben si comprende
l’atmosfera e si prende consapevolezza della paura di questi
montanari, schiacciati da un potere insensibile. Le qualità
che ho potuto apprezzare nel romanzo La casa sulla Marteniga
qui sono al servizio di un’inchiesta giornalistica su un fatto
drammatico, così che è evidente la tensione in attesa
di un evento pressoché certo. Leggere queste pagine fa male,
perché l’avidità di certi uomini non ammette
l’esistenza di sentimenti, in quella che può essere
definita un’orgia del potere.
Da
leggere senz’altro.
Tina
Merlin nasce
a Trichiana (Belluno) il 19 agosto 1926 e muore a Belluno il 22
dicembre 1991. Durante la guerra di liberazione è stata
staffetta partigiana. Inizia la sua attività letteraria
scrivendo racconti che vengono pubblicati sulla rivista Noi
donne.
Dal 1951 al 1967 è corrispondente locale del
quotidiano L’Unità.
Esordisce come scrittrice con Menica (1957),
raccolta di racconti partigiani. Segue da vicino le vicende del
Vajont. tentò di pubblicare un libro sulla vicenda, Sulla
Pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont,
che tuttavia trovò un editore solo nel 1983.
Renzo
Montagnoli
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