Natale fra due trincee
di Renzo Montagnoli
Guardo le fiamme che danzano nel focolare e
che ritagliano spicchi di luce nell'oscurità della camera. Quel fuoco dovrebbe
darmi calore e io invece in questi pochi giorni che precedono il Natale ho un
freddo che mi avvolge tutto e che perfino è entrato in me. Sono vecchio, solo,
senza più futuro e deluso del passato. Ho sperato tanto in un mondo migliore,
in un mondo diverso, più equo, più giusto, ma il tempo è trascorso e nulla é
cambiato, tranne io, che ormai trascino un'esistenza quasi vegetale, senza
desiderio di vivere, spesso invocando il sonno per non sapere. Mi è difficile rifugiarmi nei ricordi,
rivedere fra queste fiamme i volti di persone che ho stimato e amato, e che ora
non ci sono più. Eppure, se spremo la memoria, esce un succo chiaro come il
sole, un fatto accaduto tanti, tanti anni fa, in cui riparare per non morire
dentro, un evento che è forse giusto che trascriva affinché qualcuno, dopo la
mia scomparsa, possa comprendere che tutto è possibile, che gli ideali di pace
non rimangano tali, ma possano effettivamente realizzarsi.
Era la vigilia di Natale del 1916 e io allora
ero un sergente dell'esercito italiano, in servizio in una trincea della Conca
di Plezzo, un posto relativamente tranquillo, nel
senso che non vi si svolgevano le grandi e sanguinose offensive dell'Isonzo;
certo, anche lì c'era il pericolo, magari qualche bomba di mortaio, isolata,
che veniva dalle vicine trincee austriache, oppure lo sparo fulminante di un
cecchino, per non parlare delle malattie che ci aggredivano per la scarsa
alimentazione, per i rigori del tempo, per quel fango che si attaccava come un
vischio alle suole dei nostri scarponi. Più in là, dove stava il nemico, la
vita non era molto diversa e di frequente udivamo i mugugni per il rancio
inadeguato, il che ci accomunava e pur non vedendo in faccia il nostro
avversario, tendevamo a immaginarlo come noi, con indosso una divisa diversa.
Già verso il mezzogiorno di quel 24 dicembre
era corsa la voce che ci sarebbe stata una tregua, non ufficiale, proprio nel
giorno di Natale. Una tregua, per chi combatte, è una breve, ma tonificante
parentesi di vita, è l'occasione per cercare di dimenticare la paura sempre
presente, la tensione pronta in agguato. Alla sera si dava per certo questo
breve periodo di non ostilità, tanto che notai che sia da parte nostra, che da
parte loro, non venivano lanciati i razzi illuminanti.
A cena ci fu un rancio che avrebbe dovuto
essere speciale, ma la pasta fredda e scotta e il pollo rachitico ci riempirono
lo stomaco, ma senza piacere. Per fortuna fu consegnato a ognuno di noi un fiasco di vino rosso, non
annacquato, ma corposo, così che, sorsata dopo sorsata, non solo ci scaldammo
fuori, ma anche dentro.
Poi, visto che avevamo la fortuna di avere
fra di noi un discreto cantante lirico, lo invitammo a far sentire la sua voce.
Cominciò con Torna a Surriento, affrontata con
autentica passione, così che, anche per il contenuto dell'ultima quartina (Ma nun me lassà / Nun darme sto turmiento!
/ Torbna a Surriento, Famme campà!), alla fine eravamo
tutti commossi e applaudimmo calorosamente. Non appena terminò l'ultimo battito
di mani e il cantante che, se non ricordo male si chiamava Giraldi,
recuperava il fiato, si udì forte una voce provenire dalle linee nemiche: -
Bravo, tagliano, canta ancora!.
E Giraldi cantò,
passando tutto il suo repertorio, assai ampio, e finendo con il Va' Pensiero, a
cui ci associammo tutti, anche gli austriaci.
Io ero commosso, tutti eravamo commossi,
perché quelle musiche ci riavvicinano alle case lontane, alle mogli, alle
madri, alle fidanzate, ai figli in trepida attesa.
Fu allora che il tenente Girotti,
un buon diavolo di Veneto, mi chiamò e mi disse: - Andiamo fuori.
-
Fuori
dove?
-
Nella
terra di nessuno.
Avevo un po' di timore, ma pensavo alla
tregua e allora seguii il tenente che già camminava sul terreno sconnesso dalle
bombe, gridando. – Amici austriaci, fratelli, venite qui, festeggiamo il Natale
insieme!
Si fecero avanti un tenente e un sergente
austriaco, si avvicinarono e tesero la mano. Ricambiammo e fu allora che da
entrambe le trincee tutti i soldati
uscirono per incontrarsi.
Ci presentammo e così seppi che l'ufficiale austriaco
era un certo Francesco Nicoletti di Levico Terme, mentre il mio pari grado si chiamava Joseph Rier, di Graz.
Nicoletti parlava anche l'italiano, non così Rier, e notai che voleva dirmi qualcosa, spiaccicava frasi
in una lingua a me sconosciuta.
Dalla mia espressione si evinceva facilmente
che non comprendevo.
Il tenente Nicoletti,
per fortuna, intervenne, traducendo:
-
Dice che
somigliate moltissimo a suo figlio Hans, disperso lo scorso anno in Galizia.
Joseph annuiva e con la mano mi accarezzò il
volto, poi mi porse una fotografia, che doveva essere probabilmente quella del
figlio, con cui effettivamente c'era un po' di somiglianza, poi mi fece capire
di voltarla, di leggere qualcosa sul retro e infatti c'era un indirizzo,
probabilmente il suo. Lo guardai meravigliato e lui con grande fatica e sforzo
mi disse solo: – Per dopo.
E probabilmente era un invito ad andarlo a
trovare a guerra finita.
Quando fu mezzanotte, il nostro cappellano
militare Don Barba, un uomo che tanto si prodigava per alleviare qualsiasi
sofferenza, disse a Nicoletti:- Anche se forse non
siamo tutti i cattolici, credo che la Messa di Natale possa essere gradita.
Ho vaghi ricordi di quella funzione, stordito
per trovarmi a fianco di un nemico che mi era amico, ma rammento chiare le
ultime parole dell'omelia “Se qualcuno
bussa aprite il vostro cuore e la guerra non diventerà che un lontano ricordo”.
Poi venne l'alba e piano piano
ognuno ritornò nella sua trincea, io mesto e in preda a un atroce dubbio:
finita la tregua, se mi fossi trovato davanti Joseph, che cosa avrei dovuto
fare? Sparargli o tendergli la mano? E lui che cosa avrebbe fatto?
Il giorno dopo si ritornò alla consueta vita
non vita e per mia fortuna non ebbi più occasione di incontrare in battaglia
Joseph, né il tenente Nicoletti.
L'anno seguente, un colpo di mortaio provocò
un violento spostamento d'aria, che mi lanciò contro un terrapieno, spezzandomi
la gamba destra in più punti. Per quanto possa sembrar strano e nonostante la
menomazione permanente che ne portai, fu la mia fortuna, con una lunga degenza
in un ospedale ben lontano dalla prima linea e poi il congedo per l'invalidità.
Fu infatti nella notte del 24 ottobre che le
truppe austriache e tedesche sfondarono il nostro fronte alla Conca di Plezzo, causando la tremenda ritirata di Caporetto.
Attaccarono silenziosi, preceduti dai gas, e il mio reparto fo totalmente
annientato; nessuno si salvò, nemmeno il tenente Girotti.
Una massa di cadaveri, con i volti contorti dalla sofferenza, si presentò così
all'invasore.
Terminato il conflitto, non potendo lavorare
a causa della gamba e fruendo di una modesta, ma sicura pensione d'invalidità,
pensai a lungo a quella notte e mi chiesi ancora una volta che cosa avrei fatto
se mi fossi trovato davanti in battaglia il tenente Nicoletti
e il sergente Rier e che cosa avrebbero fatto loro.
Non riuscivo a darmi una risposta e quindi forse avrei potuto averla da loro.
Andai a Levico Terme, seppi dove abitava Nicoletti, che era tornato dalla guerra privo del braccio
destro, e bussai alla sua porta, ma non mi aprì. Tornai il giorno dopo e
ribussai, e ancora non fu aperto. In paese mi dissero che faceva così con tutti
e che viveva isolato dal mondo, e allora andai a Graz.
Dato il mio tempo libero avevo studiato il
tedesco ed ero in grado di capirlo e di parlarlo discretamente. Trovai dove
abitava Rier, bussai alla porta e mi aprì una signora
dal volto sofferente. Le chiesi di Joseph e lei mi rispose che, come il figlio
Hans, risultava disperso. Mi guardava, ma l'età, i patimenti avevano tolto
ormai dal mio viso quella vaga rassomiglianza con il figlio. Aveva gli occhi
umidi, quando mi disse: - Tutte le notti faccio lo stesso sogno. Bussano alla
porta, vado aprire e da una nebbia lattiginosa emergono Joseph e Hans. Cerco di abbracciarli, di
stringerli a me, ma non trovo che il vuoto. Ormai so che potrò rivederli solo
quando non sarò più di questo mondo.
Me ne andai turbato e ritornai in Italia,
lasciai passare gli anni, quelli duri della seconda guerra mondiale, ma quando
fu finita ritornai a Levico: dovevo assolutamente
sapere. Pensai che interessando il parroco locale forse Nicoletti
mi avrebbe aperto, ma ebbi una brutta notizia.
Il sacerdote mi disse infatti che
l'isolamento del tenente era durato fino al 1944; di quella guerra così
violenta non si curava, non gli interessava proprio più niente del mondo, ma
una notte di settembre di quell'anno qualcuno bussò alla sua porta e lui aprì
il suo cuore. Era una famiglia ebrea in fuga, che lui accolse, ospitò per
alcuni giorni e poi portò in un luogo più sicuro. Un delatore lo denunciò alla
polizia, la Gestapo lo arrestò, sottoponendolo a torture, ma non parlò. Una
fredda mattina di novembre, gli occhi rivolti alle cime appena imbiancate che
lui tanto amava, affrontò il plotone di esecuzione.
Degli altri presenti quel giorno di Natale,
italiani, austriaci, croati, se non divorati dal fuoco della guerra, se ne
tornarono alle loro case, più di uno con il corpo offeso, ma tutti con l'animo
segnato da una tragedia a cui furono costretti.
Ma ve n'era anche un altro, che non è mai assente, ma basta cercarlo:
quel Gesù che aprì il suo cuore agli uomini fino al punto di immolarsi per essi
e che sempre bussa , anche se pochi gli aprono.
E infine c'ero io, ora un povero vecchio
deluso dalla vita, ma sono sempre qui, pronto ad aprire il mio cuore a chi
chiede solo amore.