Il matrimonio di Antonia Infante
di Renzo Montagnoli
Antonia si abbandonò sulla sedia,
affranta, distrutta. Quella giornata la casa era risuonata come non mai di
decine di voci, parenti di cui ignorava l'esistenza erano venuti da luoghi anche lontani, tutto un susseguirsi di frasi, per
lo più di circostanza, che l'avevano confusa e tramortita. E come se non
bastasse, davanti al feretro, Giovanni e Giuseppe, i due figli gemelli, avevano
cominciato ad accapigliarsi per mettere le mani sull'eredità, su quella vecchia
casa colonica e sul circostante fazzoletto di terra da cui anni prima avevano voluto andarsene per sporcarsi le mani nelle
industrie della città. Non l'avevano nemmeno guardata, come se lei non fosse
quella che li aveva generati: un'estranea, o peggio una persona senza il minimo
valore.
Ora che tutto era finito, che il
marito riposava nel piccolo cimitero del paese, Antonia guardava smarrita le
pareti annerite della cucina, la fila delle pentole di rame appese al muro, le
mosche che ronzavano sui vetri, mentre l'ultima luce del giorno rischiarava a
malapena l'ambiente, in un gioco di chiaroscuri, esaltando ancor di più quel
senso di solitudine che si sentiva addosso.
- Giacomo – chiamò, cercandolo con lo
sguardo fino a quando non lo vide rincantucciato in un
angolo, assorto, con quei suoi occhi che sembravano smarriti.
- Giacomo! – gridò nuovamente, ma il
ragazzo non rispose.
Allora si portò le mani alla testa,
le impresse sui capelli troppo presto imbiancati e nel buio incipiente la sua
mente corse al ricordo.
-
Vedi Antonia, ragazza mia, la tua non è una bella situazione.
Credimi,
spesso a voler far di testa propria, si finisce con lo sbagliare. Capisco che
certe cose non fanno piacere, che tuo padre non avrebbe dovuto toccarti, né
farti certe cose, ma tu, invece che dirlo solo a me, sei andato a spifferarlo
al maresciallo e così adesso tu e la tua famiglia ne pagate le conseguenze. E
poi, il peccato più grave che hai commesso, e che Dio ti possa
perdonare, è l'esserti liberata anzi tempo di quella creatura che portavi in
grembo.
-
Padre, e che avrei dovuto fare? Tenermi il frutto di una violenza?
-
Tutto quello che accade è nel segno del Signore e ti dovevi rassegnare; invece,
adesso, tu e i tuoi otto fratelli siete lì a patir la fame con vostro padre in
galera. E tu, che pur saresti in età di maritarti, non troverai qua mai nessuno
che ti vorrà per quell'infamia che ti porti addosso.
Antonia
stava in silenzio e piangeva.
-
Io che sono il tuo parroco e che ti voglio bene ho trovato però la soluzione
del problema, l'unica possibile.
Vedi,
mi ha scritto il curato di Bertosso, un paesino lungo il Po, per dirmi che un
suo bravo parrocchiano, buono, timorato di Dio, una bella posizione economica,
dacché gli è morta la madre è rimasto solo e sentirebbe la necessità della
compagnia di una donna.
Ha
intenzioni serie, serissime, ed è disposto a sposare quella donna. Per via del
lavoro non ha tempo di cercarsela e allora ha demandato tutto, saggiamente, al
suo pastore. Antonia, credimi, è un'occasione unica! Ce ne dici?
Antonia
non rispose, ma pensò alla fame di ogni giorno, agli sguardi di disprezzo della
gente del suo paesino calabro, e assentì con il capo.
-
Brava, ne ero sicuro, tanto che gli ho già risposto di aver trovato la persona
giusta.
E
così il giorno seguente, dopo aver guardato per un'ultima volta i suoi
fratelli, salì sul treno che l'avrebbe portata al
lontano Nord.
Fu
un viaggio lungo, sulle strade ferrate di un'Italia che era appena uscita dagli
orrori della seconda guerra mondiale e solo dopo una
trentina di ore, sfinita, arrivò a destinazione.
Sulla
banchina sbrecciata della stazioncina Lui l'aspettava; quando scese dalla
vecchia carrozza e si guardò intorno smarrita l'uomo si fece avanti.
-
Sei tu Antonia?
-
Sì.
-
Va bene; seguimi, io sono Angelo.
Non
disse altro per tutto il percorso che fecero, a piedi, dal paesino fino alla
casa colonica.
Appena
arrivarono, Angelo si limitò a indicare una pila di piatti da lavare, poi le si buttò addosso, le strappò le vesti e sul tavolaccio
della cucina la fece sua. Non fece in tempo a rivestirsi che cominciarono a
piovere gli ordini ”Prepara la cena! Ci sono da mungere le vacche! E così via”.
Si
sposarono dopo tre giorni, con una cerimonia semplice, con ben pochi intimi e
le parole del prete sul reciproco rispetto le sembrarono l'unica nota stonata
di quella funzione.
Poi
cominciarono i giorni, tutti uguali: poche le ore di sonno e di riposo, molte,
troppe quelle di lavoro. Già all'alba nella stalla, poi di corsa a preparare la
colazione per il marito, quindi a faticare nei campi, ad affannarsi intorno ai
fornelli, e infine alla sera a subire le pretese del
marito, sempre senza nessun rispetto. La domenica poi era peggio del solito,
perché lui ritornava dal paese ubriaco e prima di
prenderla la picchiava, botte sorde, pugni calati all'improvviso sulla schiena,
calci, e, quando si lamentava, quella frase che più di ogni altra cosa la
feriva “Taci, pezzente che senza di me moriresti di fame!”.
Nemmeno
la nascita dei due gemelli portò qualche sollievo, anzi le cose peggiorarono,
perché Giovanni e Giuseppe presero tutto il carattere dal padre e così la
prepotenza si moltiplicò per tre.
Quando
venne alla luce l'ultimo, Giacomo, Antonia sperò, ma benché diverso dai
fratelli, più quieto fin dai primi mesi, alla lunga rivelò un problema tutto
suo, con quello sguardo assente, l'assoluto mutismo, la chiusura al mondo. Il
medico che lo visitò scosse la testa e disse solo una parola che lei non capì:
autismo.
Spesso
sembrava che non fosse nemmeno in casa, insensibile a ogni gesto d'affetto,
quasi ormai un oggetto.
Gli
anni così passarono, senza novità, fino a quando
Angelo si ammalò all'improvviso e altrettanto rapidamente se ne andò all'altro
mondo.
Antonia si scosse dai suoi ricordi di
una vita che pensò amaramente che fosse meglio non fosse mai avvenuta. Si alzò,
accese la luce e andò allo specchio della credenza. Da fuori giungeva il
muggito delle mucche che chiedevano di essere munte, con le mammelle
traboccanti di latte. Antonia guardò quel volto segnato dal tempo e dalla
sofferenza, si passò le mani sui seni cadenti, chiamò ancora Giacomo, senza ottenere risposta.
Chiuse gli occhi e in quel momento seppe chiaramente che cosa avrebbe dovuto
fare. Lasciò la cucina, raggiunse la scala che portava al piano superiore,
guardò la trave sporgente e la corda robusta che giaceva lì per terra da tempo
immemorabile. Lentamente, con calma, fece il nodo, poi, salita su una sedia,
legò la cima alla trave e infilò la testa nel cappio, senza nessuna emozione.
Stette un attimo così, chiuse gli occhi, poi diede un
calcio allo schienale del suo sostegno; la corda si tese, si serrò intorno alla
gola, cominciò a mancare l'aria in una sofferenza crescente. Poi, mentre
perdeva i sensi, le sembrò di venir sollevata e che il
dolore sparisse del tutto.
Una voce martellava le sue tempie, un
suono sconosciuto, un'invocazione ignota, mentre lentamente andava
riprendendosi; mani leggere le sfioravano i capelli, le carezzavano le guance,
gocce calde le cadevano sul viso.
Dov'era mai? In Paradiso forse? No,
dalla molla che le premeva sui reni doveva essere coricata sul vecchio divano.
Tutta era così confuso, tutto era
così incredibile che non sembrava vero e il suono
martellante poco a poco divenne più comprensibile, era un “mamma” ripetuto con
angoscia. Aprì lentamente gli occhi e vide subito il volto disperato di Giacomo
che si affannava per aiutarla. Strinse a sé quel ragazzo ritrovato, assaporò il
battito del suo cuore, si abbandonò estasiata a quel “mamma” ripetuto ossessivamente
e per la prima volta sentì forte il desiderio di vivere.