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  Racconti  »  C'era una volta  »  La scuola 06/10/2023
 

La scuola

di Renzo Montagnoli



All´età di sei anni, anch´io, come tanti bambini ho cominciato ad andare a scuola. In verità, in precedenza, c´era stato un breve periodo in cui ero andato all´asilo delle suore, ma dato che ero sempre ammalato (soffrivo di asma che con l´età adulta sembrava scomparsa, ma che poi si è ripresentata nella vecchiaia) ho finito per restare a casa. All´epoca chi andava alle elementari aveva il suo bel grembiulino nero e la cartella con dentro i pennini, la carta assorbente, il sillabario per imparare a leggere e il sussidiario che conteneva i primi approcci con l´aritmetica, la storia e la geografia. Restavo fuori dalla scuola che era in via Chiassi, vicino a casa, fino a quando suonava la campanella, poi come tutti gli altri entravo e andavo nella mia classe. Lì c´era il maestro che procedeva all´appello, ci faceva recitare la preghiera di rito e quindi cominciavano le lezioni. Le lezioni? Un termine un po´ impegnativo, visto che agli inizi ci si limitava a farci fare le aste sul quaderno, proprio per avviarci alla manualità della scrittura. Poi mano a mano si passava di classe si imparava a leggere e a scrivere, ma il problema di come tirare le aste e formare le parole sulla carta non era tanto una questione nozionistica, ma come farlo. Si usavano infatti una cannuccia con un pennino, che veniva intinto in una boccetta di inchiostro incastrata nel legno del banco. Il liquido veniva messo ogni giorno dal bidello che, anche per lavorare di meno, riempiva il contenitore fino all´orlo e proprio per questo era facile che, per qualche movimento improvvido, questo traboccasse, con tutte le conseguenze del caso, ivi comprese un paio di bacchettate sulle dita che il solerte insegnante provvedeva a somministrare. Anche se si stava attenti, però, c´era una minaccia sempre presente, una sorta di rovina improvvisa ed era data dal fatto che il pennino, immancabilmente, raccoglieva dei peluzzi, di cui ci si accorgeva per le inevitabili sbavature che fiorivano mentre si scriveva. Non è che in questi casi si sacramentasse, però era certo che ci poteva scappare un gesto di stizza, magari un pugno sul banco, con la conseguente fuoruscita di inchiostro dal boccettino e le più che certe bacchettate.

Se il grembiulino nero era indispensabile per evitare guai maggiori ai pochi capi di abbigliamento di cui si disponeva, aveva anche un´involontaria funzione di livellamento delle classi sociali, perché se è vero che i più erano poveri, però c´era anche qualche ricco, quasi sempre vestito come un damerino e non con abiti dismessi da altri o di modesta fattura.

E a proposito di classi (sociali) gli insegnanti avevano atteggiamenti diversi in proposito. Al riguardo ricordo due episodi emblematici. Un mio compagno di classe era ricco, e non poco, aveva un padre che possedeva una grossa auto sportiva con la quale un giorno uscì di strada fermandosi poi contro un albero. Ricoverato immediatamente in ospedale con numerose fratture era anche in stato comatoso e, allora, fino a quando riprese conoscenza, il maestro ogni giorno ci faceva dire qualche preghiera in più per chiedere a Dio la grazia di guarirlo. In un´altra occasione, invece, si ammalò seriamente il padre di un altro mio compagno, un uomo che faceva l´operaio. A parte darne notizia, spiegando così l´assenza dalle lezioni del figlio, non ci fu nessuna preghiera e noi bambini, quando lui purtroppo morì, pensammo nella nostra innocenza che se avessimo pregato il suo destino sarebbe stato diverso, ma non demmo la colpa al maestro, era un´istituzione troppo alta, era l´uomo che riluceva di sapere, pensammo solo che per i poveri non c´è nessun aiuto, nemmeno quello di Dio.

A scuola dicevano che ero bravo, che scrivevo dei bei temi e credo di essere stato probabilmente il primo della classe, il che mi inorgogliva, tanto che, finite le lezioni, se avevo meritato un bel voto tornavo a casa e lungo le scale gridavo: - Mamma, ho preso dieci!.

Di più del voto, però, ero soddisfatto per aver imparato qualche cosa di nuovo, per annaspare di meno in un´ignoranza di cui eravamo inconsapevoli, dando la colpa per le cose che ci capitavano - e che secondo noi non avevano spiegazione - ad arcani misteri, in ciò predisposti dai nonni che nei loro racconti, che stavamo ad ascoltare, parlavano di spiriti e streghe, creando in noi una paura atavica, che aumentava con il buio (quando dovevo fare le scale, illuminate fiocamente, mi batteva forte il cuore, vedevo fantasmi in ogni ombra).

La scuola mi ha insegnato a non aver paura dell´ignoto, a cercare di dare una spiegazione a fenomeni strani, mi ha portato poco a poco a una vita consapevole dei miei pregi e dei miei difetti.

Poi vennero le medie, ma si tratta di altra storia, è un C´era una volta un po´ meno lontano, in un´epoca il cui l´Italia post bellica si avviava al miracolo economico.


Da C´era una volta

 
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