La
non-banalità del male
di Ferdinando
Camon
"Avvenire"
21 settembre 2014
Alcuni di noi (mi ci metto in mezzo) hanno
sempre avuto qualche riserva sulla formula “banalità del male”, con cui Hannah Arendt definiva il sistema
etico-culturale che guidava il lavoro di Adolf Eichmann.
Ci sembrava una formula riduttiva. La “banalità del male” banalizza il male. Lo
riduce. Toglie a quel male le dimensioni epocali che ne fanno un unicum nella
storia. Si è discusso sul concetto diunicum, qualcuno
ha osservato che ci sono stati altri grandi massacri. Sì, ma non come questo:
questo voleva eliminare una “razza”, cioè modificare la composizione
dell'umanità. Hannah Arendt
ha coniato quella formula studiando Eichmann al processo, e osservandolo da
vicino. Imperturbabile e pignolo. Un automa. Un ottuso. Che ha l'aria di non
capire quello che ha fatto. Eppure, ha visto le gasazioni
in atto, e (dice nel processo) non gli son piaciute, ma (nella vita) ha
continuato come prima. Per inerzia. Atonia morale. La Arendt
mandava gli appunti del processo al giornale che l'aveva inviata (“The New Yorker”), e “la banalità del male” fu la formula
riassuntiva sull'imputato, il suo cervello, il suo sistema. Da noi quello è il
titolo (da Feltrinelli) del libro della Arendt.
Adesso quella tesi viene contestata da un altro libro, appena uscito negli
Stati Uniti. Poiché il titolo originale del libro della Arendt
è “Eichmann in Jerusalem”, Eichmann al processo,
l'autrice tedesca Bettina Stangneth
intitola il suo libro di risposta “Eichmann before Jerusalem”, com'era Eichmann prima del processo. In Italia
ne dà notizia il “Foglio”. Sono titoli che dicono tutto. Eichmann catturato e
portato in processo era un uomo dimesso, dalle risposte flebili, dallo sguardo
braccato, dagli occhietti sfuggenti, spaventato dalla prospettiva
dell'impiccagione, ineluttabile fin dall'inizio. Ha tutto l'interesse a
presentarsi come “stupido”. Ma questo non è l'Eichmann che “ha fatto la
storia”. È l'Eichmann che “esce dalla storia”. Esce banalmente, cercando una
scappatoia che non c'è. Ma quando ha fatto la storia non era così. Per vedere
bene Eichmann e tutti gli altri che han lavorato con lui o sopra di lui (lui
era solo un tenente colonnello) non bisogna collocarli sullo sfondo di un
tribunale dove sono imputati. Loro non c'entrano con quello sfondo. Sono lì per
errore, fallimento, sconfitta. Contro la loro volontà. La loro storia, la loro
vita, la loro volontà li colloca su un altro sfondo, ed è da questo che
ricevono la giusta luce per essere osservati e capiti. Tutti noi che abbiamo
visto questo sfondo, vi abbiamo immaginato loro. Basta aver visto, nella sala
del comando di un lager, le pareti piene di simboli, stella gialla, rettangolo
rosso, rettangolo nero…, che i prigionieri portavano
sul petto. Rivelano la vastità dell'impero, e delle “razze” che lo componevano.
Guardandoli capisci che chi comandava l'impero, che fosse lì o a Berlino,
doveva essere un artefice intelligente e attivo del meccanismo, non un
esecutore ottuso. Se un meccanismo così gigantesco fosse stato gestito da funzionari
ottusi, come vuol apparire Eichmann, atoni inintelligenti
carrieristi, non avrebbe funzionato. C'è intelligenza, in quel funzionamento.
Maligna, diabolica, ma c'è. Guardiamo su una carta il reticolare intrico dei
binari che portavano là… Il numero dei campi sparsi
per l'Europa… I numeri delle vittime, milioni dal Sud
Europa, milioni dall'Est… I reparti che facevano
quelle cose, i volontari che s'arruolavano in massa, la fedeltà che mantenevano
fino all'ultimo… “Quel che ci vien chiesto è di
essere sovrumanamente inumani” spiegava Himmler. Quelli che gli hanno obbedito cercano poi, nei
processi (Eichmann non è il solo) di nascondere la “sovrumana inumanità” sotto
un'apparente stupidità. È la loro ultima astuzia.
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