Sempre martellate sulle opere d'arte
di Ferdinando Camon
"Avvenire"
8 marzo 2015
Non la dimenticheremo più, la visione dei militanti dell'Isis
che distruggono reperti assiri a Mosull e a Nimrud. Come, anni fa, quella dei talebani che
distruggevano a cannonate le statue del Buddha. Le definiscono operazioni di
pulizia etnica, perché si accaniscono contro comunità non islamiche, caldei, yazidi, o islamici delle minoranze. A Nimrud
si tratta di reperti della civiltà assira e babilonese. Vecchi di 4500
anni. Distruggerli oggi, rivela che son sentiti ancora come attuali. E lo sono
infatti. Nei momenti di crisi, quando una battaglia per uno scopo difficile
dura a lungo, si è tentati di ritirarsi e abbandonare. Allora nel mio cervello
scatta un'ammonizione: «Chi lascia incompiuta una lotta, poi non avrà più
pace». Perciò continuo, magari alla fine perderò, ma non smetto. Da dove viene
quell'ammonizione, dove sta quel verso, e perché dentro di me (e dentro di voi,
ora che lo conoscete) è così potente? Sta in un poema che risale al 2500-2600
avanti Cristo, s'intitola “L'epopea di Gilgamesh”. Appartiene alla civiltà
assira e babilonese. L'Isis distrugge i resti di
quell'antichissima civiltà perché sa che sono dentro l'umanità, dentro di voi e
di me: i colpi di piccone sono vibrati dentro la mia memoria, la memoria degli
studiosi (tanti), quella dei lettori (tantissimi), perfino dentro la mente di
coloro che quella civiltà non l'hanno ancora studiata, magari perché non sono
ancora nati. Domani nasceranno e dopodomani potrebbero studiarla, ma la volontà
dell'Isis è che non possano mai farlo. È la
cancellazione del passato. Affinché il futuro sia diverso da come il passato lo
stava preparando. Ma il futuro è figlio del passato, esattamente come un
bambino è figlio dei suoi genitori.
Per procurare dei
figli alle coppie fedeli al regime che non ne hanno, i regimi dittatoriali per
prima cosa uccidono i genitori di quei bambini.
Questa distruzione delle altre civiltà da parte dell'Isis
vien definita “un crimine contro l'umanità”. Praticato da ogni regime che
voglia fare una storia che non abbia nessun debito prima e al di fuori del
regime. Non facevano così, in fondo, il fascismo? Il nazismo? Il comunismo? Non
fa così oggi, su vasta scala, il consumismo? Non selezionavano, per lasciarli
passare, solo i prodotti compatibili con la loro ideologia, stoppando gli
altri? Va bene, qui, oggi, con gli jihadisti, abbiamo
uomini violenti e rozzi, armati di piccone e di trapano, che spaccano opere
d'arte, monumenti, statue. Nelle censure dei regimi avevamo (e abbiamo)
burocrati ben vestiti, in uffici puliti, che scremano i prodotti culturali che
arrivano da tutto il mondo e vorrebbero entrare: “Questo sì, questo no”. La
decisione “questo no” è una martellata da cui l'opera resta distrutta, non vive
più. Ma consentitemi di abbandonare il tono generico e passare al personale.
Sarà meno autorevole, ma anche (spero) meno noioso. “Voi dovreste tradurre
Primo Levi, perché racconta un grande crimine e spiega cosa succede quando un
uomo potente incontra un uomo inerme”, raccomandavo ai consulenti russi che
conoscevo, responsabili della selezione delle opere dall'Occidente. “Mai”,
rispondevano, “è un bugiardo”. Quel giudizio su un libro era come una picconata
su una statua. “Quanto sesso c'è in questo libro?” era una delle domande a cui
i consulenti di una casa editrice italiana dovevano rispondere, nel proporre un
libro. L'opera d'arte, per arrivare al pubblico, ha sempre dovuto rispettare
qualcuno o qualcosa: da noi il Duce, in Germania il Führer, in Urss il Piccolo
Padre, ora, qui da noi, l'Affare e, nello Stato Islamico, il Califfo.
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