Settanta
e sentirli tutti
di
Renzo Montagnoli
Quest’anno,
l’8 maggio, ho compiuto settant’anni. Invecchio, anche se
qualcuno giustamente dirà che si invecchia ogni ora, ogni
minuto, ogni istante dopo la nascita. Però, fino a una certa
età, non si è consapevoli del fenomeno, le forze
rimangono uguali, lo spirito dell’esistenza non muta, insomma
sembra che il tempo si sia fermato. Poi accade, d’improvviso,
che una mattina ci si risvegli più stanchi del solito, che non
si sia riusciti eliminare la stanchezza del giorno prima; agli inizi
non ci si fa caso, si incolpa il tempo, un malessere magari leggero,
ma la ripetizione del fenomeno induce a pensare che qualcosa sia
cambiato nel proprio corpo e allora, di colpo e anche con angoscia,
ci si accorge che si sta invecchiando. Questa sensazione l’ho
sperimentata una ventina di anni fa, ma abbastanza alla svelta mi ero
abituato, avevo compreso che era del tutto naturale e che in fondo
non era poi un gran peso. Questo fino al corrente mese di maggio,
allorché, nella ricorrenza del mio compleanno, come al solito
mi sono voltato all’indietro, per un’inconscia analisi
del mio passato. Gli acciacchi accentuati, qualcuno nuovo, la
consapevolezza di una inarrestabile decadenza mi ha portato a
concludere che questi settant’anni mi pesano, e non poco. Ciò
soprattutto se raffronto passato e presente, se provo a comparare
giovanili ideali e situazione attuale. Nulla, nulla di ciò che
speravo si è realizzato e ovunque volga gli occhi vedo guerre,
ingiustizie, lacrime. E’ una società che sembra più
malata di quella che esisteva alla mia nascita, una società
che non cerca nemmeno di conoscere il reale significato del termine
civiltà. E di questa situazione la colpa è anche mia,
mia per non essere riuscito a imporre l’idea di un mondo più
equo e anche più ricco solo se i suoi cittadini si
ricordassero, prima di essere italiani, russi, americani ecc., di
essere uomini, creature fatalmente destinate a un ciclo di vita
breve, pieni di paure, di pregiudizi, poveri di speranze. Il fatto
che il nostro passaggio su questa terra non sia altro che un impervio
cammino dall’alba al tramonto dovrebbe farci balenare il
sospetto che il comune destino dovrebbe vedere rapporti diversi, che
non la prevaricazione, ma il reciproco aiuto dovrebbero ispirare la
nostra esistenza. E invece no, c’è chi è un
predone e tutto arraffa a danno di una moltitudine di umili figure,
di cui non conosceremo mai il volto, né il nome, vittime tutte
sacrificate sull’altare del potere e della ricchezza da altri
uomini, voraci pescicani predatori di banchi di povere, ma più
umane sardine. Ecco, più di tutto mi rattrista pensare che
lascerò un mondo che non sarà migliore di quello in cui
sono nato, anzi non nascondo il timore che sia peggiore, perché
almeno nel primo dopo guerra c’era in tutti la voglia di
ricominciare, di ricostruire, una speranza che aiutava a supplire
alle non poche difficoltà economiche, quella speranza che
ogni, ahimè, manca totalmente. Per me è un dolore
vedere i giovani che non trovano un lavoro, che non possono
permettersi di metter su famiglia, che vivono alla giornata sulle
spalle dei genitori. E’ questo il mondo che si intende
perpetuare? Non ci sono più ideali, aumenta la ricchezza in
mano a pochi e ovviamente in cambio aumentano i poveri. Come se non
bastasse, l’uomo sta distruggendo il pianeta, depauperandolo di
tutte le sue ricchezze, avvelenando l’acqua, il suolo e l’aria,
il tutto in nome del profitto, del pil, di questa magica sigla che
nasconde un’autentica tragedia: la progressiva
disumanizzazione. Vorrei un giorno andarmene vedendo un ravvedimento,
scorgendo nel buio una scintilla di speranza; mi sembra un desiderio
più che logico, ma la logica sembra una parola sconosciuta in
un’umanità che stancamente si lascia andare.
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