Il
virus, amico, nemico dell'uomo
di
Lorenzo Russo
Di
lui si parla ogni giorno. Le opinioni sul come contrastarlo sono
tante, a partire dal non uscire di casa, dal tenere almeno due metri
di distanza da chiunque si incontri, fino dall'infischiarsi di tutte
le norme protettive, emesse dal governo su parere di alcuni
specialisti, purtroppo non convincenti e nemmeno convergenti tra di
loro.
Il
virus è come un ospite non voluto, e come tale va combattuto
ad oltranza.
Questo
ce lo impone la forza della sopravvivenza. È lei che ci incita
a combatterlo ed ognuno lo fa seguendo le proprie convinzioni ed
attitudini.
Considerando
il fatto che la vita è un campo di battaglia, mi viene facile
affermare, che solo chi è preparato a combatterla ha anche
possibilità di vincere.
In
questo senso, al perdente rimane la gloria di essere vissuto per
lasciare un'impronta tangibile del suo vivere. Onore quindi a colui
che in questo senso è vissuto.
Vincitori
e vinti dovrebbero sempre onorarsi alla fine di ogni combattimento,
nella percezione che senza l'uno non c'è l'altro, perchè
così è la vita nella sua essenza vitale.
Da
qui è comprensibile affermare che il virus è nemico e
amico, nel senso che con lui bisogna imparare a vivere per
sopravvivere, nel senso che egli rappresenta un richiamo serio e non
più differibile a non oziare negli svaghi e piaceri esagerati.
È
lui che ci scuote dal letargo, da quando si vive la vita nella
superficialità della presunzione di poterla vivere nel
piacere, è lui che ci avvisa che è tempo di lottare per
guadagnarsi la vita.
Purtroppo
i combattenti sono diventati scarsi, di numero e qualità.
Oggi
si riscontra un voler vivere sempre più a lungo, per cui ci si
lascia torturare dai bisturi e dagli altri attrezzi e apparati
chirurgici -creati appositamente anche per guadagnarci sopra di più-
come anche si sopportano le lunghe, noiose e costose convalescenze
per allungare la vita di qualche mese o anno.
Da
dove viene questo atteggiamento, se non dalla mancanza della
spiritualità, cioè del rapporto tra l'uomo e il
trascendente, inteso come collegamento con tutto ciò che è
fuori dalla nostra dimensione ma parte fondamentale del tutto
esistente.
La
mancanza di questa connessione crea il timore della morte, nel credo
che con essa finisca tutto, nella constatazione di aver fatto troppo
poco, di aver ignorato il senso utile e costruttivo della vita.
Si
ha paura del nulla che potrebbe esserci dopo, mentre si accetterebbe
la fine quando si avesse aperto uno spiraglio di speranza a nuova
vita.
Ciò
che aiuterebbe, sarebbe il volgere lo sguardo verso l'alto e scoprire
che palpita, vive trasformandosi continuamente senza che l'essenziale
vada perso, da poter pensare che il tutto abbia un significato
precostituito.
In
questo senso anche la morte assumerebbe il significato di
trasformazione e, inoltre, inciterebbe a fare di più in questa
esistenza, perchè solo così si costruirebbe un ponte
con un possibile futuro migliore nell'aldilà.
Allora
la paura si combatte a spada tratta e chi combatte non ha paura di
morire.
Di
conseguenza, bisognerebe considerare la vita una missione e così
darle un significato vitale e forte che tolga la paura di essere
debole, limitato, temporaneo.
In
questo senso diventa irrilevante fino a quando è dato di
vivere.
L'economia
del consumo senza limite in atto favorisce la diffusione del virus,
per cui mi auguro che l'uomo comprenda che è necessario
modificare il sistema economico e il proprio stile di vita da esso
dipendente.
Sotto
questo punto di vista è giusto considerare la sua venuta come
richiamo di coscienza che non è più da sottovalutare.
La
scoperta dei vaccini dimostra che siamo intelligenti e quindi capaci
di sopravvivere, ma attenti a non abusarne, fino a rendere il sistema
di difesa disabituato a reagire da solo davanti a un altro pericolo,
e non dimentichiamo che anche i virus sono intelligenti e si adattano
alle nuove condizioni di difesa create dall'uomo mutando
continuamente.
L'uomo
cerca permanentemente di scoprire la complessità della vita
per renderla più sicura e vivibile per lui, ma ci sono momenti
dove si sente guidato, fortemente influenzato nel suo modo di pensare
ed agire. Sono i momenti che danno una svolta al suo voler essere
padrone della sua vita.
Ecce
Homo, ti ho concesso la libertà di decidere, ma non di
spadroneggiare a tuo piacimento.
La
vita è troppo complessa per te, da permetterti di poter
varcare il confine del tuo destino.
Il
tuo destino è già stato scritto prima della tua venuta.
Goditi i momenti di libera decisione, ma non scordarti che hai dei
compiti fondamentali da realizzare.
È
uguale come tu lo vuoi chiamare: destino, sorte, fato, certo è,
che hai un Dio sopra di te, il Dio della sapienza che tutto crea e
regola, anche per te quando tu lo riconoscessi ed ossequiassi.
È
dunque il fato a definire il destino dell'uomo? È lui a
marcare il limite della sua libertà di pensiero ed azione?
Mi
viene, qui, da pensare che esista un ordine superiore per portare a
termine un programma universale, nel quale l'uomo ricopra sì
un ruolo particolare secondo il suo grado di sviluppo, ma non più
qualora egli non rispettasse i limiti concessigli.
L'uomo
è quindi padrone e schiavo della sua esistenza, per cui
uscirne gli diventa quasi impossibile. Ma si può replicare:
fino a quando?
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