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  Editoriali  »  Le aporie della comunicazione, di Carlo Bordoni 03/04/2009
 

Le aporie della comunicazione

di Carlo Bordoni

 

 

Jurgen Habermas (Teorie dell'agire comunicativo, 1986) sostiene che nelle società occidentali operano una sfera dell'agire strumentale (dove agiscono i soggetti economici e il sistema mediatico) e una sfera dell'agire comunicativo (dove operano gli individui e il sistema di rappresentanza democratica. La sovrapposizione delle due sfere crea scompensi, confonde i linguaggi e destabilizza gli individui. Un fenomeno che caratterizza la realtà contemporanea, dove non è più possibile ormai tenere separate le due sfere, che tendono sempre più a confondersi e a interagire. L'agire comunicativo si è talmente intriso dell'agire strumentale da non essere più distinguibile da questo, da lasciarsene condizionare in maniera assoluta. Si può anzi dire che l'agire comunicativo ne sia condizionato e indirizzato al punto da sviluppare una restrizione della libertà individuale.

I due livelli di comunicazione. La svolta epocale dell'età contemporanea, la spinta inarrestabile che la porta fuori dalla società di massa, è con tutta evidenza, la comunicazione. Comunicare si è dimostrato essenziale, anzi vitale, non solo per la qualità della vita, ma per crescere, innovare, miglio­rarsi. Comunicare ha permesso di affrancare l'individuo da una condizione sottomessa e umiliante in cui l'ha spinto l'industrializzazione (la prima ri­voluzione tecnologica dell'età moderna) e i regimi totalitari, con la loro an­sia aggressiva di controllare le masse e, attraverso l'imposizione di un po­tere politico autoritario, di controllare il mondo intero.

Comunicare significa in primo luogo conoscere e la conoscenza è il primo requisito della libertà. Per questo ogni regime politico cerca di appropriarsi in primo luogo dei mezzi di comunicazione, di controllare e influenzare il flusso delle informazioni, tacendo o esaltando, a seconda dei casi, oppure diffondendone di false o di manipolate. Il controllo della comunicazione equivale al controllo dell'individuo, ma non si deve pensare che si tratti di una pratica recente: il nostro pensiero va immediatamente ai regimi totali­tari del secolo scorso, ai fascismi e ai nazismi, ma anche ai comunismi, dove la negazione del sapere è affidata a un apparato specializzato ed effi­ciente. Il controllo dell'informazione viene da molto lontano, non ha certo bisogno della radio, dei giornali o della Tv per importi su larga scala. Già al momento dell'introduzione della scrittura come strumento privilegiato di trasmissione del sapere e dell'informazione, il potere (c'è sempre qualcuno che decide per gli altri e in loro nome, per il bene comune) ha riservato a pochi eletti il compito di occuparsene, lasciando la grande maggioranza della popolazione nell'ignoranza. Si dirà che era giocoforza operare una distinzione tra chi doveva occuparsi del sapere (pochi) e chi delle attività produttive, difensive, ecc. (molti). Questione di costi e di opportunità, oltre che di esigenze pratiche, come quella di riservare ai migliori, ai più adatti, lo svolgimento  di un compito che richiedeva  particolari abilità intellet­tuali.

Sta di fatto che non è pensabile sia sfuggito al “potere” l'evidenza di una netta distinzione sociale determinata dall'acquisizione della conoscenza, tale da lasciare la maggioranza della popolazione nell'impossibilità di godere dei progressi della scienza e, quindi, di evolversi.

Oggi la comunicazione ha riempito il mondo, lo ha unito e amalgamato, diffondendo la possibilità fisica di comunicare fin negli angolo più sperduti del pianeta, al di là delle barriere fisiche, politiche e di linguaggio. L'informazione e il sapere sono garantiti e disponibili a chiunque, basta saperli cogliere, basta avere gli strumenti della “distinzione! Per trarne beneficio. È qui che si pone il problema della doppia caratteristica del comunicare, scissa in due portanti che viaggiano su due distinti livelli che (strano a dirsi) “comunicano” poco fra loro. Sono due livelli che funzionano sotto gli occhi di tutti, rientrano nelle abitudini quotidiane, ma sono confusi nella pratica comune, come se si trattasse di un tutto unico, come se non fossero distinti.

La comunicazione di primo livello è quella “ufficiale”, che gira attraversi i tradizionali mass media, dai giornali alla radio, dalla televisione al cinema. La sua caratteristica, oltre all'estrema invadenza e pervasività (tale da essere divenuta la principale responsabile dell'immagine culturale del nostro mondo), è la sua modalità di diffusione univoca: da un centro verso la periferia, dall'alto verso il basso, dall'uno ai tanti. Il suo scopo precipuo è la diffusione sui grandi numeri, con scarse possibilità di retroazione. Questo tipo di comunicazione è divenuto, in epoca moderna, progressivamente più importante, grazie alle nuove tecnologie, dal perfezionamento dei sistemi di stampa alla trasmissione via etere e via cavo, dalla digitalizzazione all'informatica.

Il secondo livello di comunicazione è invece di tipo orizzontale, non necessariamente ristretto a pochi, ma la cui caratteristica è la possibilità di dialogo, di relazione reciproca, di interazione anche a livello individuale.

La comunicazione sta diventando sempre meno comunicativa. Sembra un controsenso, eppure è una conseguenza – la più immediata – della sovrapposizione caotica dei diversi media su scala mondiale. Anche questo è un effetto della globalizzazione: la facilità e la rapidità del comunicare hanno esteso i suoi confini all'intero pianeta, superando i limiti nazionali, linguistici, politici; attraversando le frontiere grazie alla sua qualità straordinaria: l'immaterialità.

Viviamo in un mondo in cui prevale l'immateriale: non solo la comunicazione e buona parte del lavoro che svolgiamo sono pratiche immateriali, ma anche il denaro è una convenzione non sostanziale. Accrediti e addebiti non sono altro che scritture telematiche sul nostro conto bancario, laddove si depositano virtualmente stipendi ed emolumenti o si sottraggono trasferimenti, bollette e spese autorizzate con carte di credito. Tra ricchezza e povertà la differenza è data da una stringa di caratteri alfanumerici, da una relazione di “fiducia” su cui tutti conveniamo. In questo mondo immateriale in cui si spende denaro elettronico, si fanno investimenti con trasferimenti di crediti virtuali, si producono sempre più beni immateriali e servizi, l'opulenza è reale. La produzione di cibo, oggetti di consumo, strumenti e apparati tecnologici è più alta che in passato: ha un che di miracoloso che solo gli economisti possono spiegare.

L'immaterialità della comunicazione comincia a denunciare i suoi problemi di crescita: non è solo la realizzazione utopistica del villaggio globale preconizzato da McLuhan, in cui tutti possono parlarsi con facilità, conoscersi e darsi una mano come tra vicini di casa. Il villaggio globale rischia di diventare una babele caotica di suoni, segni e immagini, dove è sempre più difficile orientarsi e cogliere il messaggio che ci sia utile.

Nella sovrabbondanza di comunicazione i rischi sono ovvii: in primo luogo la stanchezza che si produce in chi riceve. Un eccesso di comunicazione causa un calo di attenzione, con una significativa dispersione di dati. Poi è inevitabile una perdita di valori, con la conseguente sottovalutazione dell'importanza del messaggio: in questi casi l'overloading di comunicazione rende l'informazione, pur significativa, come scontata, ripetitiva e dunque banale. Il susseguirsi di notizie catastrofiche, ad esempio, alla lunga produce apatia e disinteresse in chi ascolta (come nel caso della favola “al lupo, al lupo”, che sintetizza l'allarmismo ingiustificato, tale da rivelarsi fatale quando la minaccia si concretizza). A ciò si aggiunge il rapido oblio delle informazioni ricevute, dovuto allo stesso eccesso di messaggi da ritenere.

E infine l'incertezza della ricezione: nel caos dei media che si sovrappongono e si moltiplicano, ognuno con la sua urgenza e la sua necessità di imporsi, è facile che l'obiettivo non sia raggiunto. La comunicazione perde tutto il suo valore, diviene inutile, uno spreco assoluto di energie, quando non raggiunge il suo target: il destinatario è assente, distratto o impegnato a ricevere una o più comunicazioni. Più aumentano i media, più la comunicazione sono facilitate, rapide, molteplici, più danno voce a emittenti diverse, e più il rischio di non arrivare a destinazione è alto.

Facile quando i media erano pochi, quando il messaggio trasmesso attraverso un canale televisivo o due aveva la matematica certezza di essere ascoltato da tutti o almeno dalla maggior parte degli utenti. Adesso la frammentazione delle fonti e degli ascolti su una miriade di canali di trasmissione generalista si superano attraverso la “personalizzazione”, l'invio di messaggi “asincroni”, destinati a uno specifico destinatario e disponibili per un tempo sufficientemente lungo da essere recepiti con comodità. Non serve, infatti, restare davanti al computer per ricevere un messaggio di posta elettronica, come non è necessario avere il telefonino acceso per ricevere un sms.

L'immediato futuro della comunicazione dovrà dunque tener conto di questi rischi e prendere le necessarie misure per contenere la perdita d'informazione utile, a scapito di quella inutile, fasulla, illecita o semplicemente sovrabbondante. Per raggiungere questo scopo è probabile sia dato maggiore impulso alle comunicazioni “asincrone” e si modifichino sensibilmente quelle generaliste. Ci aspetta un domani in cui giornali, radiogiornali e telegiornali cambieranno forma e modalità di trasmissione (per ora ancora assimilabile al quotidiano stampato, nell'impaginazione come nella modalità di trattamento delle notizie), piuttosto visibili on demand, a richiesta dell'utente, e non a orari prestabiliti. I canali tv sempre più monotematici e indirizzati verso un pubblico specializzato. I quotidiani e la stampa periodica sempre meno cartacea e più elettronica.

 

 
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