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  Editoriali  »  Il referendum del 25 e del 26 giugno 06/06/2006
 

 

           

 

Come molti penso sapranno, il 25 e il 26 giugno gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimere il loro voto sulla proposta di referendum avanzata dal comitato avverso alla riforma costituzionale deliberata dal precedente governo con il voto favorevole solo dello schieramento di centro-destra.

Questa legge, meglio conosciuta con l'appellativo di “devolution”, a chiaro sintomo della sudditanza non solo politica, ma anche culturale di non pochi italiani, attua una profonda e corposa riforma della nostra costituzione, con il pretesto di adeguarla alle mutate esigenze della nazione, uniformandola ad analoghi statuti che reggono paesi definiti dai proponenti più evoluti e moderni, quali la Francia, gli Stati Uniti d'America e l'Inghilterra.

A parte il metodo con cui si è avviata e deliberata questa riforma, per nulla in sintonia con lo spirito della nostra Costituzione, intesa dai padri fondatori della Repubblica come una “Casa Comune”, ritengo opportuno mettere in evidenza come si debba parlare più di riforma politica con implicazioni istituzionali che di rinnovamento istituzionale con riflessi politici.

La mancanza di collegialità del nostro parlamento nell'approvare questa riforma dimostra da sola, e inequivocabilmente, che si tratta di un qualche cosa di parte e non di una concertazione comune.

Si è parlato di benefici in termini di snellezza delle procedure legislative, di minori costi per un più ridotto numero di parlamentari, di una chiarezza esemplare nelle attribuzioni dei poteri, ma posso tranquillamente affermare che ciò non risponde al vero.

Quindi è opportuno tratteggiare le novità di questa legge, limitandomi, non solo per ragioni di spazio, ma anche perché penso che sarebbero di difficile comprensione alla maggior parte dei lettori, non adusi a termini giuridici, a delineare quelle che appaiono più rilevanti e controverse.

Mi riferisco ” in primis ”, alla riforma del Capo del Governo.

Il testo costituzionale non parla più di Presidente del Consiglio dei Ministri. Parla di “Primo Ministro”. Si utilizza, cioè, un termine, che non a caso la Costituente non aveva utilizzato. L'espressione “primo ministro” infatti era stata introdotta da una delle c.d. leggi fasciste (l. 24 dicembre 1925, n. 2263, art. 1).

Nella riforma il Primo ministro:

- è eletto a suffragio universale e diretto dal popolo (art. 92);

- non necessita della fiducia della Camera (“ … la Camera si esprime con un voto sul programma …” (art. 94, comna 1);

- il Primo ministro determina la politica generale del Governo. Egli dirige, promuove e coordina l'attività dei ministri. Non è più, quindi, come nel sistema attuale, uno sopra le parti; è il capo-padrone che comanda e dispone.

- Il Primo ministro chiede al Presidente della Repubblica lo scioglimento della Camera dei deputati, che provvede con decreto (art. 88, comma 1, lett. a)).

- “Il Primo ministro può porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera dei deputati si esprima con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle Proposte del Governo, nei casi previsti dal suo regolamento. La votazione ha luogo per appello nominale. In caso di voto contrario il Primo ministro si dimette” (art. 94, comma 2)
Le dimissioni del Primo ministro comportano lo scioglimento della Camera (salvo nel caso in cui venga presentata una mozione di sfiducia costruttiva, oggetto di una disciplina estremamente complicata e di fatto inapplicabile).

In buona sostanza, il Primo Ministro può sciogliere la Camera, ma questa non può sfiduciarlo senza determinare con la sua stessa sfiducia il proprio scioglimento. Quindi la vita della Camera e quella del Primo Ministro corrono sullo stesso binario,  nel senso che esistono e cadono insieme.

E' facilmente comprensibile come ciò comporti un radicale stravolgimento del garantismo costituzionale, elemento portante della Costituzione del 1948.

Inoltre, questa norma di fatto ci esclude dai principi democratici dei maggiori paesi occidentali, perché in nessun sistema il parlamento si regge sulla fiducia del governo, senza dimenticare che in tal modo viene a mancare l'indispensabile indipendenza fra l'esecutivo e il legislativo.

A fronte delle critiche il governo precedente ha tentato un espediente sterile, dicendo semplicemente che si è operato in analogia con le costituzioni francesi, inglesi e americane.

L'affermazione non solo è inesatta, ma falsa e dimostro subito il perché.

 

L'art. 12 della Costituzione Francese prescrive che: “Il Presidente della Repubblica può, sentito il Primo ministro e i Presidenti delle Assemblee, sciogliere l'Assemblea nazionale”.

 

Negli Stati Uniti il Congresso è del tutto indipendente rispetto al Presidente. Il Congresso non può sfiduciare il Presidente; il Presidente non può sfiduciare il Congresso.

 

Il riferimento alla Costituzione inglese, ammesso sia possibile, è ancora più inesatto. La Costituzione del Regno Unito non è come quella italiana una Costituzione scritta; essa è il risultato di stratificazioni successive nelle quali ha un ruolo rilevante la prassi. E' quindi a priori metodologicamente sbagliato porre a confronto due esperienze così diverse. In ogni caso il potere di dissolution (potere di scioglimento delle camere) che in epoca passata è stato di fatto utilizzato dal Premier inglese oggi è “caduto in desuetudine nella Gran Bretagna del parlamentarismo avanzato” (Torre, in www.associazionecostituzionalisti.it). La dissolution è quindi un decrepito fantasma del sistema costituzionale britannico, sistema in cui, in ogni caso, il premier dopo le elezioni è (a differenza della riforma Costituzionale che stiamo esaminando) soggetto alla fiducia parlamentare. (*)

 

Insomma, il rischio è che si introduca una tirannia della maggioranza.

 

Il Presidente della Repubblica, già con pochi, ma ben delineati poteri, diventa una figura meramente rappresentativa, una sorta di re senza scettro e senza trono, senza più nemmeno rappresentare l'unità nazionale, perché il dominus sempre, e comunque, sarà il Primo Ministro.

 

La vera e propria devolution, cioè il trasferimento di alcune competenze dallo Stato alle regioni, è contenuto nel nuovo articolo 117. In buona sostanza la sanità, la scuola e la polizia locale saranno di esclusiva competenza regionale, con l'inevitabile conseguenza di disparità di trattamento, anche essenziali, fra una realtà e un'altra. A questa norma poi si associa anche il cosiddetto “Federalismo fiscale”, da attuarsi entro tre anni dall'entrata in vigore della nuova costituzione, con il riconoscimento di un'ampia autonomia impositiva alle Regioni,alle Province, alle Città Metropolitane e ai Comuni.

Come per gli altri precedenti articoli, tuttavia, non vengono ben definiti i poteri delegati e di conseguenza, al di là dell'opportunità o meno della normativa, è più che lecito attendersi un'insorgenza di conflitti fra organismi che, anziché snellire l'apparato pubblico, finirà con l'appesantirlo in misura non facilmente prevedibile, ma senz'altro corposa.

 

Ciò premesso, dopo questa disamina abbastanza veloce e peraltro non dell'intera legge di riforma costituzionale, nel mentre mi corre l'obbligo di evidenziare come in effetti sia necessario un ammodernamento del nostro Statuto, pur senza arrivare a violarne lo spirito, faccio presente che la precedente maggioranza ha di recente riconosciuto essa stessa i non pochi limiti e difetti della sua legge, proponendo all'attuale governo un'azione concertata per pervenire a un generale aggiustamento. Un'ombra però grava sulla sincerità di questo proposito: che il centro-destra sia divenuto accomodante nel timore che il 25 e il 26 giugno gli italiani boccino questa legge, con inevitabili ripercussioni politiche e di immagine.

Da parte mia sono dell'idea, come del resto persone molto più edotte di me nella specifica materia (si può dire che pressoché tutti i costituzionalisti hanno bocciato questa legge), ripeto sono del fermo convincimento che al seggio non debbano esserci dubbi, che il “NO” debba essere chiaro e inequivocabile, proprio per dimostrare a chi voleva stravolgere concetti radicati che il potere è e deve restare nelle mani dei cittadini italiani.

Formulo anche un appello: non disertiamo questo appuntamento, affluiamo in massa, dimostriamo a noi stessi e al mondo intero che siamo un popolo che vuole restare libero di decidere il proprio avvenire.

 

 

(*) Giuseppe LOSAPPIO. Brevi riflessioni sul metodo e sui contenuti (il c.d. premierato in particolare) di una riforma della costituzione francamente anti-costituzionale. Articolo reperito sul sito ttp://www.referendumcostituzionale.org/

 

 
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