Lampedusa
di
Gianluca Ferrari
Era
di notte e solo i denti
facevano
di noi testimonianza:
sciaguattavano
lampi di speranza
nel
buio mastodontico Mediterraneo.
Mare
placido come una vigna, quando fu
che
indovinasti d’essere voragine, essenza
che
sprofonda più volubile del sogno?
Al
primo nostro gesto che corse –
violento
incerto e propagò
dentro
le onde con il furore delle fiamme?
Gesti
terragni, trepidi come gli armenti
di
Cariddi, ti sbriciolasti nell’oro morbido
dell’alba
in un infarto ritornasti abbaglio,
la
sabbia d’Africa da cui giungemmo.
Mare
su aride braccia ottuse vorticose
che
ardono nell’acqua ustorio specchio:
branco
di gesti che vede il guado
mutarsi
in divorante scaglia.
Cuore
relitto e per il nostro occhio
–
antro,
assenza d’orizzonti – la pigra
nenia
dell’abisso. In ogni vena il morso
avido
di un canto di sirena; così
ogni
stella ci si spense nella gola
come
rapida
cometa; i seni delle madri
oscuri
scogli nelle bocche tese degli infanti.
Poppammo
flutti e un cieco diluvio ci estinse
specie
bastarda, sbando della speranza;
ci
fece gelo geometrico di spruzzi
disposti
in fila nell’hangar bianco a Lampedusa.
Neppure
il quieto brivido dell’erba sul nostro
scheletro
sepolto dai sorrisi fondi
delle
anemoni che non conoscono tempesta,
ma
guizzo di murena a ricordarci per l’eterno
che
noi nascemmo fummo e rimanemmo
solo
preda. Il sangue immobile bottino
sul
fondale; carne assopita in incubo
di
madreperla poi dileguò a miti maledetti,
languida
spettrale. Il nostro sole
è
un’omelia che rapida s’asciuga.
Da Acquerelli
gotici (edito in proprio, 2020)
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