Interferenza
(A tre voci)
di
Grazia Giordani
Ormai
le telefono obtorto collo, come fosse un penoso dovere da compiere:
una visita alla zia ammalata, in una stanza che sa di valeriana e
notte chiusa; un appuntamento al ristorante con il caporedattore che
alla fine del pasto si risucchia un po' le gengive; una gita
collettiva con gente simpaticona, ma piuttosto ignorante. Eppure
qualche volta devo ancora chiamarla, far finire la storia in una
opalescente dissolvenza, come direbbe lei, che ama un linguaggio
aristocratico, da ex frequentatrice di buoni collegi.
Alzo la
cornetta: clic. Questo è l'unico rumore. Nessuno squillo
sincopato che mi dia l'avviso della linea libera. Odo un fremito
leggero, come di respiro trattenuto e poi una voce a me
ignota.
[forte fruscio di fondo] "... ma sei proprio sicura
che sia così radicalmente cambiato? Incontrare una persona -
Zeta, mia cara - che possa darti quel calore particolare, lontano dal
gelo dell'abbandono, della solitudine, della brevità, della
precarietà della vita intesa come Quasimodo l'intende, è
raro. Gli uomini innanzi tutto sono presi dal loro lavoro, dalle loro
storie più o meno esaltanti, dal loro narcisismo e poi anche
dalle loro stanchezze. Dai cazzi loro, in una parola. Noi donne, che
inseguiamo o stiamo ferme, diamo - forse per una questione ancestrale
-, importanza all'altra metà della mela; gli uomini, purtroppo
no. Siamo dei passaggi, delle avventure, degli specchi in cui loro
possono rimirarsi. E tanto basta".
Non riesco a sentire la
risposta di Zeta. Le sue parole si perdono dentro un fruscio che si
fa voce di tempesta, una grandinata di suoni drammatici che
raggiungono un climax sempre più alto. Quando ormai ho perso
la speranza che i rumori si facciano voce percettibile, posso sentire
un appello accorato, espresso con voce quasi di pianto:
"....Ypsilon,
perdonami se ti vesso così con la mia ossessione amorosa. Mi
rendo conto che mi sono creata un fantasma, un uomo affascinante come
io vorrei che fosse..."
Ancora quel dannatissimo rumore ad
impedirmi di sentire come quelle due mi stanno conciando per le
feste. E così io sarei un narcisista? E inoltre fantomatico.
Un cinico che cerca sempre nuove conquiste per il suo medagliere? Un
carrierista che si arrampica per arrivare sempre più in alto?
Questa Ypsilon è una gran saccente, con i suoi consigli da
"Contessa Clara" o "Donna Letizia", però
devo ammettere che non ha detto poi tanto male: ha parlato come se mi
conoscesse; io sono sempre attratto dalla "donna che non c'è".
Quando comincia ad esserci un po' troppo, a divenire incombente, a
soffiarmi con l'alito sul collo, mi sento in prigione e mi vien
voglia di scappare, di "nascondere il cuore dentro le vecchie
mura", ma non per raccogliermi a pensarla, come vorrebbe
Quasimodo, ma piuttosto per evirarmi - cardiacamente parlando -, al
punto di allontanarla del tutto dai miei ricordi. Anche Quasimodo
conosce quella Ypsilon, non solo i cazzi.
Ma è proprio
questo che voglio, sempre stimoli nuovi e donne accomodanti, meglio
se accomodate, rilassate e morbide su lussuriose dormeuses?
[il
rumore si va placando, diventa quasi un brusio di fusa di
gatto]
[ssssssssssscisccisccisc]
"...e poi non sono
del tutto sicura che sia una mia proiezione, un fantasma. Sono troppo
vivi i ricordi della sua originalità di linguaggio e di
scrittura, del suo aspetto fisico così stuzzicante: lo sguardo
con i bagliori del sottobosco, la chioma soffusa d'argento, come la
tua, tanto che spesso sogno di intrecciarle insieme e comporne
un'impalpabile cortina, fragile come le mie delusioni, elusiva come i
miei sogni".
[clic, clic: cornette riposte, stracolme delle
amorose confidenze delle due amiche]
Sento il bisogno di
respirare una boccata d'aria fresca. Avverto un martellare alle
tempie. Non sono contento di me. Al diavolo quelle due bla-bla-bla.
Tutto sommato, se il telefono non avesse avuto quella dannata
interferenza, o meglio quella possibilità di farmi ascoltare
quello che non avrei dovuto - come un guardone dell'orecchio -,
adesso non mi sentirei questo malessere addosso, questo vestito di
disagio che mi stringe nelle cuciture. Sarebbe stato bello che mi
fossi inserito dicendo:
"Oh, Zeta, come sei patetica, ma
alla tua non più verde età, covavi ancora tali
illusioni? Pensavi che io che posso sedurre graziosissime fanciulle
in boccio mi fossi veramente invaghito di una corolla un po'
fanée?"
No, forse questo non glielo avrei proprio
detto. Non sono poi così inelegante. Non sono ancora entrato
nella fase del conquistatore che si vanta con gli amici. Credo di
avere un briciolo di classe. Altrimenti, come avrebbe fatto la
piangente a trovarmi così ricco di charme?
Se avessi
avuto il coraggio di interferire, avrei potuto rivolgermi a quella
Ypsilon:
"Quanti ne hai stufati (non nel senso di cuocerli
in casseruola), per essere delusa così?"
No, neanche
questo avrei detto. Meglio incassare i colpi. Anche se la verità
si insinua come un tarlo nel profondo dell'anima, negli angoli
d'ombra, quelli più neri.
***
Ritaglia
un rettangolo di velluto blu notte, la finestra della redazione. Nel
cielo pulito ammiccano tre stelle.
Mi lascio prendere da una
fantasia allucinata. Mi sembra che le chiome di Ypsilon si intreccino
alle mie in una rete argentea, inquietante e sempre più fitta
e volino - tendina dell'orrore -, ad appiccicarsi al vetro della
finestra. Vedo lo sguardo ardente ed obliquo di Zeta conficcato
dentro quell'irreale trina; immagino le gambe affusolate di Ypsilon
in posa invitante; mi porto una mano al petto; la tenda si imporpora
per il sofferto fiotto che mi esce dal cuore.
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