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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Interferenza (A tre voci), di Grazia Giordani 10/01/2021
 
Interferenza (A tre voci)

di Grazia Giordani





Ormai le telefono obtorto collo, come fosse un penoso dovere da compiere: una visita alla zia ammalata, in una stanza che sa di valeriana e notte chiusa; un appuntamento al ristorante con il caporedattore che alla fine del pasto si risucchia un po' le gengive; una gita collettiva con gente simpaticona, ma piuttosto ignorante. Eppure qualche volta devo ancora chiamarla, far finire la storia in una opalescente dissolvenza, come direbbe lei, che ama un linguaggio aristocratico, da ex frequentatrice di buoni collegi.
Alzo la cornetta: clic. Questo è l'unico rumore. Nessuno squillo sincopato che mi dia l'avviso della linea libera. Odo un fremito leggero, come di respiro trattenuto e poi una voce a me ignota.
[forte fruscio di fondo] "... ma sei proprio sicura che sia così radicalmente cambiato? Incontrare una persona - Zeta, mia cara - che possa darti quel calore particolare, lontano dal gelo dell'abbandono, della solitudine, della brevità, della precarietà della vita intesa come Quasimodo l'intende, è raro. Gli uomini innanzi tutto sono presi dal loro lavoro, dalle loro storie più o meno esaltanti, dal loro narcisismo e poi anche dalle loro stanchezze. Dai cazzi loro, in una parola. Noi donne, che inseguiamo o stiamo ferme, diamo - forse per una questione ancestrale -, importanza all'altra metà della mela; gli uomini, purtroppo no. Siamo dei passaggi, delle avventure, degli specchi in cui loro possono rimirarsi. E tanto basta".
Non riesco a sentire la risposta di Zeta. Le sue parole si perdono dentro un fruscio che si fa voce di tempesta, una grandinata di suoni drammatici che raggiungono un climax sempre più alto. Quando ormai ho perso la speranza che i rumori si facciano voce percettibile, posso sentire un appello accorato, espresso con voce quasi di pianto:
"....Ypsilon, perdonami se ti vesso così con la mia ossessione amorosa. Mi rendo conto che mi sono creata un fantasma, un uomo affascinante come io vorrei che fosse..."
Ancora quel dannatissimo rumore ad impedirmi di sentire come quelle due mi stanno conciando per le feste. E così io sarei un narcisista? E inoltre fantomatico. Un cinico che cerca sempre nuove conquiste per il suo medagliere? Un carrierista che si arrampica per arrivare sempre più in alto? Questa Ypsilon è una gran saccente, con i suoi consigli da "Contessa Clara" o "Donna Letizia", però devo ammettere che non ha detto poi tanto male: ha parlato come se mi conoscesse; io sono sempre attratto dalla "donna che non c'è". Quando comincia ad esserci un po' troppo, a divenire incombente, a soffiarmi con l'alito sul collo, mi sento in prigione e mi vien voglia di scappare, di "nascondere il cuore dentro le vecchie mura", ma non per raccogliermi a pensarla, come vorrebbe Quasimodo, ma piuttosto per evirarmi - cardiacamente parlando -, al punto di allontanarla del tutto dai miei ricordi. Anche Quasimodo conosce quella Ypsilon, non solo i cazzi.
Ma è proprio questo che voglio, sempre stimoli nuovi e donne accomodanti, meglio se accomodate, rilassate e morbide su lussuriose dormeuses?
[il rumore si va placando, diventa quasi un brusio di fusa di gatto]
[ssssssssssscisccisccisc]
"...e poi non sono del tutto sicura che sia una mia proiezione, un fantasma. Sono troppo vivi i ricordi della sua originalità di linguaggio e di scrittura, del suo aspetto fisico così stuzzicante: lo sguardo con i bagliori del sottobosco, la chioma soffusa d'argento, come la tua, tanto che spesso sogno di intrecciarle insieme e comporne un'impalpabile cortina, fragile come le mie delusioni, elusiva come i miei sogni".
[clic, clic: cornette riposte, stracolme delle amorose confidenze delle due amiche]
Sento il bisogno di respirare una boccata d'aria fresca. Avverto un martellare alle tempie. Non sono contento di me. Al diavolo quelle due bla-bla-bla. Tutto sommato, se il telefono non avesse avuto quella dannata interferenza, o meglio quella possibilità di farmi ascoltare quello che non avrei dovuto - come un guardone dell'orecchio -, adesso non mi sentirei questo malessere addosso, questo vestito di disagio che mi stringe nelle cuciture. Sarebbe stato bello che mi fossi inserito dicendo:
"Oh, Zeta, come sei patetica, ma alla tua non più verde età, covavi ancora tali illusioni? Pensavi che io che posso sedurre graziosissime fanciulle in boccio mi fossi veramente invaghito di una corolla un po' fanée?"
No, forse questo non glielo avrei proprio detto. Non sono poi così inelegante. Non sono ancora entrato nella fase del conquistatore che si vanta con gli amici. Credo di avere un briciolo di classe. Altrimenti, come avrebbe fatto la piangente a trovarmi così ricco di charme?
Se avessi avuto il coraggio di interferire, avrei potuto rivolgermi a quella Ypsilon:
"Quanti ne hai stufati (non nel senso di cuocerli in casseruola), per essere delusa così?"
No, neanche questo avrei detto. Meglio incassare i colpi. Anche se la verità si insinua come un tarlo nel profondo dell'anima, negli angoli d'ombra, quelli più neri.

***

Ritaglia un rettangolo di velluto blu notte, la finestra della redazione. Nel cielo pulito ammiccano tre stelle.
Mi lascio prendere da una fantasia allucinata. Mi sembra che le chiome di Ypsilon si intreccino alle mie in una rete argentea, inquietante e sempre più fitta e volino - tendina dell'orrore -, ad appiccicarsi al vetro della finestra. Vedo lo sguardo ardente ed obliquo di Zeta conficcato dentro quell'irreale trina; immagino le gambe affusolate di Ypsilon in posa invitante; mi porto una mano al petto; la tenda si imporpora per il sofferto fiotto che mi esce dal cuore.



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