Faffankullo
di
Lorenzo De Ninis
Avevo
quattro anni e mezzo. Ricordo ancora quando sbucò sul versante
destro della collina il carro armato tedesco con la canna minacciosa
del cannone puntata verso il paese. Corsi in casa, dove mio padre e
mia madre stavano ammucchiando la poca roba da portar via. Dovevamo
sfollare, era rischioso rimanere in paese. Il giorno prima s'era
sparsa la voce che sarebbero arrivati i Tedeschi.
Partimmo
con il carretto tirato a mano da mio padre dove erano state messe in
sacchi le cose indispensabili. Mio fratello minore stava avvolto in
una coperta tra i fagotti, mentre io portavo sulle spalle un
sacchetto di foglie di tabacco e patata, che mio padre avrebbe
tritato e mescolato per fare le sigarette.
Dopo
un giorno di viaggio, trovammo rifugio in una vecchia casa colonica
insieme con altri sfollati. Rimanemmo in quel posto più di un
anno. Si dormiva su pagliericci riempiti di foglie di mais stesi sul
pavimento di mattoni, coperti da mantelline e vecchi pastrani. La
cucina, abbandonata chi sa da quanto tempo, tutta nera e sporca,
ripulita dai miei per quanto si poteva, aveva un grosso focolare,
dove mia madre cucinava servendosi degli oggetti che avevamo portato
con noi e del cibo che mio padre si procurava con lavoretti nei
dintorni.
A
poca distanza dalla casa si era insediato un comando tedesco con
guarnigione di soldati quasi tutti molto giovani.
Mia
madre, spinta dal bisogno, cominciò a lavare e stirare le
camicie per gli ufficiali e sottufficiali.
A
portarle e ritirarle, di solito, veniva un aitante soldato, altissimo
e biondo, che mi prese in simpatia. Mi offriva qualche caramella
insieme al pane nero di segala. E spesso si metteva a giocare con me
e mio fratello.
Una
volta come un gigante mi prese per la vita, mi sollevò fino
agli anelli infissi nel soffitto, che mi fece afferrare, e poi mi
lasciò penzoloni. Impaurito, mi misi a gridare la prima
parolaccia che avevo imparato senza per altro conoscerne il vero
significato:
-Vaffanculooo!-
Lui
mi prese di nuovo e mi appoggiò a terra, mentre rideva e
ripeteva contento:
-Faffankullo,
faffankullo!-
Un'altra
volta mi prese per il tallone e mi infilò a testa in giù
nel pozzo che si trovava vicino all'aia. Anche in quel caso, quando
stavo per toccare l'acqua, mi misi ad urlare vaffanculo a più
non posso, e quella magica parola rimbombante sulle umide pareti
muschiose mi tirò fuori dal pericolo. Lui, naturalmente,
rideva pronunciando faffankullo.
Un
giorno trafficavo insieme con mio fratello vicino al focolare e non
mi accorsi di un pezzo di tavola da cui fuoriuscivano quattro grossi
chiodi arrugginiti. Dove credete che Lorenzo si sedette? Depose la
sua tenera chiappa destra proprio su quei puntuti chiodi.
Urlai
come un forsennato, accompagnato nel concerto da mio fratello, fino a
quando giunsero mia madre e mio padre (si nascondeva per ore
nell'intercapedine di due muri per sfuggire alle retate dei Tedeschi
e Fascisti) che mi diedero le prime cure. Ma c'era il pericolo del
tetano, comunque di un'infezione.
Poco
lontano, oltre la vecchia ferrovia, i Tedeschi avevano adibito una
casa ad infermeria. Là mia madre, facendosi coraggio e
sfidando tutti i pareri negativi, mi portò.
Quando
entrammo, scorsi Faffankullo e mi passò la paura. Lui fu
contento di vedermi e mi accolse con un gioioso abbraccio. Prima
dell'iniezione, tolse il pezzo di lenzuolo e pulì il tutto con
impacchi di alcool che bruciava e mi faceva male. Cominciai a
strillare e piangere. Per rabbonirmi infilò una mano in tasca.
Pensai che volesse darmi una caramella, invece tirò fuori il
portafogli da cui estrasse una foto che mi mostrò. Mi segnò
col dito un bambino riccioluto all'incirca della mia età,
dicendo: -Kwesto essere Otto, fighlio mio- e poi indicò la
giovane donna -Kwesta sua mammà-
A
sentire "otto", guardai stupito mia madre e mi misi a
ridere (credevo che i numeri servissero ad altro!) e mi calmai.
Fatta
la puntura, aggiunse: -Tu essere puono, non dire me
faffankullo-
Aveva
scoperto il significato della misteriosa parola! Finita la
medicazione, mi infilò sul petto, sotto la camiciola, un pezzo
di pane nero e con una carezza mi salutò, mentre su pressione
di mia madre gli dicevo sorridendo: -Grazie, ciao-
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