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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Aspettando Myriam di Milvia Comastri 24/02/2006
 

Ingannevoli immagini lontane

come miraggi nell'arido deserto.

La mente sa,

ma il cuore non s'arrende.

Lo scialle ha due buchi rotondi.

Il cielo ha sottratto l'azzurro alla lana sottile.

Lo scialle ha due buchi rotondi.

In cielo due nuvole bianche si muovono lente.

L'orlo dello scialle sfiora l'erba, lucida di rugiada. 

La casa ha la facciata bianca truccata con fiori di glicine.

La sedia  di vimini è davanti alla casa, rossa, dondola sull'erba bagnata.

Il gatto tigrato si passa una zampa dietro l'orecchio, gli  occhi gialli socchiusi alla luce del primo mattino.

Lo scialle ha due buchi rotondi.

Un vento amabile sfiora con mani di pianista le foglie dell'albero. La musica è lieve, di un pallido verde.

Lo scialle ha disegni di rose rosse come sangue, che violano l'azzurro sbiadito.

Lo scialle avvolge donna. Copre i suoi capelli grigi, le ossa incollate alla pelle arida e sottile come carta vecchia, i piedi piccoli, come quelli di una bambina.

La sedia accoglie la donna, la culla con un dondolio lento e ipnotico.

Lo scialle ha due buchi rotondi.

Dietro il vuoto dei buchi due occhi.

Lo sguardo è nero e bruciante.

Lo scialle protegge l'attesa.

Come l'ala di un Angelo Custode.

 

 Angelo di Dio che sei mio Custode…Sembra ieri che la mettevo a letto. Era soffice come un pulcino, e le mani…quelle piccole mani le muoveva intorno al mio viso come un volo di farfalla. Il sorriso. Il sonno che la rapiva pian piano mentre le sussurravo: polvere di stelle nei tuoi occhi ho gettato, ora sorridi e dormi beata. Così  era un tempo. Era così. 

 

        Dentro lo scialle la donna sorride. Deglutisce l'odore della stanza, l'aroma di fresca innocenza della figlia bambina. Fa scivolare le dita sul filo che un tempo le legava, liscio, allora, senza nodi o sfilacciature.

Ogni mattino, quando il tempo è buono, la donna trascina la sedia sul prato, si siede e ricopre il suo dolore. Le servono solo gli occhi per l'attesa. E il cuore, che le palpita con battiti sconnessi: to-r-ner- àog-gi -torne-rà.

Quando il tempo è ostile, e pioggia e freddo feriscono il paesaggio, la donna si siede accanto alla finestra della cucina. Immobile, scruta nel grigio che opprime la finestra. Il gatto si acciambella ai suoi piedi e l'unico suono che si percepisce nella stanza è il suo ronfare tranquillo e il sibilo del vento, chiuso fuori. 

A volte la donna ha un sussulto: leva una mano da sotto lo scialle, frenetica la strofina sul vetro. Si alza.

 

No, è solo un foglio di giornale sollevato dal vento. I miei occhi mi ingannano, sono proprio una vecchia. E lei, lei come sarà? Un'estate i capelli le erano diventati tutti biondi. Sulla spiaggia, quell'anno, giocavamo agli indovinelli. Indovina indovinello son trecento cavalieri con la testa insanguinata e la spada sguainata con un osso dentro al petto e del verde come tetto. La gente intorno ci sentiva ridere felici. Le altri madri mi invidiavano. Io e lei. Per sempre, ho pensato in quell'estate che le aveva pennellato d'oro il capo. Certa, io, di indovinare il futuro.

 

Sulle dita, sotto lo scialle, conta gli anni trascorsi. Ma dovrebbe avere più mani, e meno nebbia nella mente. Il tempo. Da quanto tempo, ormai, i giorni sono grani di un rosario, ogni  piccolo grano uguale all'altro?

 

E' stato quando il suo corpo cominciò a mutare, attraverso sottrazioni e addizioni di linee curve, e il suoi occhi cambiavano ogni giorno, sfuggendo i miei occhi, e la voce stridente mi gettava addosso pietre taglienti, che mi resi conto che la stavo perdendo.  Abbandonai l'intercessione dell'inetto Angelo Custode, che aveva fallito il suo compito permettendo che lei cambiasse, che lei diventasse altro da me. E cominciai a pregare la Madonna: solo la Madre di Dio poteva ridarmela.  Ave Maria, Maria benedetta, Maria dolente, Maria donna. Maria madre. Come me, madre. E dopo mesi che  continuavo a consumarmi i polpastrelli a far scorrere i grani del rosario, all'improvviso  tutto sembrò ritornare nell'ordine giusto delle cose. Era ancora la mia bambina, con i suoi bronci e le risate, e i capricci e le tenerezze. Ma poi.

 

 E' arrivata una nuvola scura a coprire il sole. Quella nuvola ha attraversato il cielo sopra la città, ed è gravida di  pensieri disordinati, di imprecazioni, di odore acre di incubi, di cacofonie stridenti. Alla donna la città ha sempre incusso timore. Quell'agglomerarsi di palazzi, insegne, scorrere nauseabondo di automobili: ha sempre percepito tutto questo come l'immagine di una bestia predatrice. Troppi luccichii, troppi passi affrettati, troppi spigoli insidiosi.  Lei in città c'è stata poche volte. Un giorno di Pasqua ha visitato la cattedrale, ma l'ha trovata troppo solenne e gelida, così distante dalla luce rosata della chiesa del paese. Così diverso quel Gesù sofferente dietro l'altare di marmo da quello benedicente e amabile che da sempre accompagnava i suoi giorni. Poi ha trascorso fulminee interminabili settimane nell'ospedale dove suo padre ha consumato gli ultimi frammenti  di vita.  Quando gli ha chiuso gli occhi ha pensato che nient'altro di così lacerante poteva più accaderle come la perdita di quell'essere amato che le aveva insegnato che è Dio l'unico amico dell'uomo, l'unico che non ti abbandonerà mai.

La città è stato anche il punto di partenza per la fuga della madre della donna, quando lei non era nient'altro che un piccola bocca assetata di latte e amore.

E' stato in città che la donna ha concepito sua figlia. In un attimo di smarrita solitudine ha dimenticato Dio, la Vergine, i Santi e il buon Gesù, per dare ascolto solo alla torrida ubriacatura del sangue. Per quell'atto prova ancora vergogna. Avrebbe voluto che il suo ventre fosse fecondato dall'alito  puro di un Angelo, e non da ansiti sudati. Ma non per questo, quel frutto del seno suo, lo ha amato di meno. E lo ha anche battezzato con il nome della madre mai conosciuta, quasi un risarcimento per quella perdita.

L'ultima volta che si è recata in città l'ha percorsa con passi d'angoscia. I suoi occhi s'allungavano lungo i vicoli, frugavano ogni anfratto, planavano attenti sulle piazze.   Era l'alba di un mattino di novembre. Poi l'ha vista. Stava seduta curva su una panchina del viale della stazione, i piedi che affondavano in un macero tappeto di foglie morte.

 

Mi ha detto vattene, mamma. Mi ha detto che con me si sentiva morta, che le succhiavo l'anima. Con le mie paure per lei che la facevano prigioniera, con i Segni di Croce, con i miei rosari, con i lumini accesi davanti ai Santi. Non ci sono santi, mi ha detto, ci sono uomini fatti di carne, sangue, debolezze, luce e oscurità. Non c'è nessuna prova che dio esista, ma ogni giorno, al contrario, c'è la dimostrazione della sua inesistenza.

Mi sono seduta vicino a lei, lei ha gridato io non sono tua, lasciami vivere la mia vita!

Si è alzata per andarsene. Le ho afferrato una mano, ti prego,  ho sussurrato, ti prego, rimani. L'ho guardata in viso, quel viso che era così bianco e smagrito, quel mattino, l'ho fissata negli occhi che sembravano due pozze d'acqua nera. Ho cominciato a dirle ricordi.

 

La donna in quel freddo mattino ha tessuto un cappotto di ricordi intorno al corpo intirizzito della figlia. Li ha cuciti con lacrime lucenti come aghi. Ricordi, ricatti. La ragazza se li è stretti addosso, ha avvolto il collo esile con  il bavero orlato di parole nostalgiche.

 

Indovina indovinello son  trecento cavalieri…Qual era, mamma, la soluzione? Non ricordo, le ho risposto. Ma sapevo di aver vinto.

Infatti mi ha detto vieni, torniamo a casa, mamma. Il viso sembrava ancora più bianco e più scarno. Ma io avevo vinto. In quel momento.

 

La nuvola se ne è andata a coprire altri luoghi. La luce del pomeriggio ha un colore polveroso, che preannuncia pioggia. Il portalettere è passato già da ore, e ha lasciato dietro di sé solo l'odore bruciato del tubo di scarico mal funzionante del suo motorino.

Una volta, anni prima, era arrivata una lettera.

 

Una busta azzurra. Nessun mittente. Il tagliacarte mi tremava fra le dita mentre cercavo di aprirla, con il cuore che mi saltava nel petto. Ma dentro nulla. Non parole, non una mappa per un ponte da attraversare. Solo quella busta sottile come un velo di cipria, il francobollo con il pavone blu e oro, l'inchiostro smozzicato del timbro, una m spezzata, una a mutilata, spazi vuoti e sbavati, un carattere che sembrava una stella. Poi la busta è sparita, volatilizzata, il giorno stesso che l'ho ricevuta. Ho ribaltato la casa, ho svuotato mille volte tasche e borse, spalancato cassetti. Ho pregato tutti i Santi. Ma niente. Allora ho pensato che quella busta avesse camminato sul filo di seta di un sogno, dal mondo invisibile fino a qui, nelle mie mani.

 

E la donna aveva ripreso a trascinare la sedia sul prato, con il gatto che le si strusciava alle gambe, mentre le stagioni danzavano intorno a lei, e affastellavano

ore su ore, giorni su giorni. Colori, profumi che lei non percepiva.

 

Ha buttato a terra il suo scialle, prima di sbattere la porta. Cadendo ha fatto un tonfo assordante, che è andato a cancellare l'eco di quelle urla –le mie, le sue?- che avevano strangolato la luce di quell'ultimo crepuscolo. Le rose rosse che avevo dipinto per lei si sono accasciate sul pavimento della stanza, in un lago di gelido azzurro. Le rose erano senza spine, solo carnosi petali di sangue. Ho sentito il rumore nemico dell'auto che si allontanava furiosa. Ho pensato alle sue braccia, così esili e bianche intorno al volante. Ho pensato allo scavo delle guance, al tremore del suo corpo.  Ho toccato la voragine nel mio ventre. Ho iniziato ad attenderla da quell'istante. Ho raccolto lo scialle. Odorava già di assenza.

 

 

 

Igea M. /Bologna 10-15 gennaio 2006                                     Milvia Comastri

 

 

A volte, la donna, si era chiesta se fosse la cosa giusta continuare a pregare, continuare a pensare che solo nella fede, al di là di tutto, ci fosse la speranza. Aveva provato a spegnere i lumini sotto i santi, a cantare canzoni, invece di biascicare preghiere. Ma Dio era dentro di lei, con le sue leggi, e le richieste, e la sua fame di essere supplicato. Lo sguardo della figlia le frugava nell'anima, e le canzoni, come un abito maleindossato, cadevano a terra.

 

Mi chiamava bigotta, senzavita. Gridava guarda il risultato delle tue preghiere, è questo che il tuo buon dio vuole?   Mi salivano in bocca parole stanche, senza spinta per uscire. Chiudevo gli occhi e rivedevo l'immagine bionda di quell'estate. La guardavo e vedevo lei, come era in quel momento, un'aquilotto con le ali spezzate, e il mio cuore pareva arrestarsi dalla pena.

Una goccia, due, tre, poi la pioggia si rovescia sul glicine, sul prato costellato di fiori d'amor nascosto, sul gatto che con un balzo va a rifugiarsi sotto la tettoia della lavanderia. La donna è così stanca, oggi. Non ha la forza di alzarsi, prendere la sedia, portarla in casa e chiudersi dietro la finestra. Le sembra che oggi, la pioggia, lenisca il suo tormento. Continua a dondolarsi, piano. Continua a scrutare nella cortina d'acqua. A pensare il passato.

 

Le ciliegie,  ecco, erano le ciliegie i trecento cavalieri…

 

C'è qualcosa che si muove, là in fondo, verso la strada… Un'ombra, una figura chiara che avanza…Un passo leggero…, un lucore dorato…

 

“Myriam!”

 

E' un grido acuto, primitivo, che incide la pacifica sera d'estate come il suono di lamiera tagliente contro una lastra di marmo.

 

“Myyriaammmm……………………………”

 

Lo scialle ha due buchi rotondi.

Dietro il vuoto dei buchi due palpebre abbassate, quiete.

Dietro lo scialle un fermo sorriso.

La pioggia è cessata.

Una luna sbilenca nel nero del cielo  accarezza con dita d'argento una vecchia sedia a dondolo  rossa. Immobile nel mezzo del prato.

 

 

Tangalle, 19 gennaio 2006

 

Milvia

 

 

 

 

 

 

 

       

 

 
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