Dimenticare
Tallin
di
massimolegnani
Sofi
era l’unica che masticasse un poco d’italiano in quella
città del Baltico, in un Nord che mi era sconosciuto,
vagamente in alto a destra.
Per
me Lituania, Estonia, Lettonia costituivano un tutt’uno
nebuloso e, non fosse stato che il programma del mio viaggio e il
biglietto del treno erano stati predisposti dal Partito, forse sarei
sceso a Vilnius o a Riga anziché a Tallin.
Era
il periodo dei grandi mutamenti, la seconda metà degli anni
Ottanta, il blocco comunista che andava sgretolandosi, prima che
crollasse definitivamente il muro, piccole nazioni che dichiaravano
l’indipendenza con un coraggio folle, il nostro Partito che
assumeva posizioni autonome da Mosca, ma con cautele e titubanze
molto vescovili. Così, per simboleggiare una solidarietà
poco compromettente mi avevano mandato nella capitale estone per
partecipare al Torneo
internazionale di scacchi per non classificati,
io pedina in un sistema di equilibri e di contatti ben superiore alle
mie capacità di gioco.
Sofi
girava tra i tavoli a servire ai giocatori chini sulle scacchiere il
tè con qualche pasticcino e fette di torte casalinghe.
Indossava quello che credo fosse il loro costume tradizionale, un
corpetto giallo, una gonna di panno scuro, una cuffia bianca da cui
spuntavano due trecce imprevedibilmente nere. Osservava le mosse dei
giocatori con una certa competenza, tu
bello bravo, le
prime parole che mi rivolse e al mio stupore indicò la
bandierina tricolore sul mio tavolo. Non sono bello e neppure bravo,
eppure lei non perdeva occasione di passarmi accanto e lodare con
discrezione le mie strategie in realtà povere d’inventiva.
Forse voleva esercitare il suo italiano o ero io a costituire un
elemento esotico tra tanti partecipanti tutti uguali, impassibili
stoccafissi del Nord Europa.
Tu
italiano mi
ripeteva con quegli occhi color del Baltico, se il Baltico era come
l’immaginavo, perché ancora non l’avevo visto: tra
la città e il mare si frapponeva una collina. Dalla prima sera
mi prese sotto la sua protezione e, finite le partite della giornata,
la ritrovavo ad attendermi all’uscita dal massiccio palazzo del
torneo.
Bergstrasse,
la strada
della collina, era
un viale che partiva dal centro medioevale, con il selciato lasciato
a pietre levigate e intorno qualche casa a graticcio
dall’architettura grossolana che in Italia non avrebbero
commosso nemmeno un turista giapponese. Iniziava ampio con una certa
maestosità ma poi si andava assottigliando a mano a mano che
saliva verso la periferia e sembrava perdersi prima di raggiungere il
mare. Non mi capacitavo di quella stranezza, la città pur
vicina al Baltico, si era sviluppata quasi nascosta dal mare.
Noi sempre difenderci, paura di attacchi dal mare e la collina era
buona difesa naturale. Ma poi nemici venuti lo stesso, da terra. Sofi
nel raccontare aveva una fierezza malinconica come fosse allo stesso
tempo indomita e rassegnata all’ennesima invasione.
Lei
abitava in una casetta in cima al poggio, io in un albergo poco più
in basso. Durante quei ritorni serali imparai ben presto i passi
lenti e i luoghi tipici, Sofi mi indicava botteghe di artigiani che
da noi erano scomparsi, come
dite voi quelli che aggiusta scarpe?, il
quartiere ebraico dove mancavano gli ebrei, i tigli in fiore, il
parco con un torrione in pietra, lei si spiegava a gesti e parole
approssimate, a me incantava il suo sorriso.
In
cinque giorni dalla sua bocca appresi la storia del Paese, qui
nazisti ammazzarono patrioti, da quel binario partivano gli ebrei per
morire a mille e mille, a quel muro i russi fucilarono Stanislas,
nostro presidente durato pochi mesi, e con lui altri cento senza
colpe. Una
sequela di sconfitte e lutti che Sofi, lei così giovane,
raccontava come vissuti sulla propria pelle.
E questo nome tedesco?,
le chiesi una sera indicando il viale su cui passeggiavamo sempre più
lenti. Trovavo assurdo che dopo tanti disastri, almeno in parte
inflitti dalla Germania, usassero ancora una parola tedesca per dar
nome alla via principale della città. Non
c’entrano i nazisti. Cinquecento anni fa da Danzica, Lubecca,
Kiel, venivano attraverso il mare a commerciare con noi. Facevamo
parte della lega anseatica, un’alleanza commerciale. Non
ne sapevo nulla, la ascoltai come mi stesse raccontando la sua
vita. “Bergstrasse”
brontolavano i tedeschi appena sbarcati, salendo con i carri la
collina che separava il porto dalla città. Ma la nostra ambra
valeva bene quell’ultima fatica. Un
sorriso di malizia e orgoglio le schiarì il viso.
Al
mattino per raggiungere la sede del torneo ripercorrevo il viale in
senso inverso ed era bello riconoscere accanto alla Storia triste del
Paese la minima geografia di negozietti in cui avevo fatto acquisti
col suo aiuto e di locali privi di pretese dove poche ore prima
avevamo sorseggiato una birra placida.
Gli
scacchi persero interesse quasi subito, forse giocavo, vincendo e più
spesso perdendo, unicamente per sentire i suoi occhi su di me, di
fatto mi alzavo al mattino già in attesa di quell’ora
all’imbrunire che avremmo passato assieme camminando senza
fretta verso casa.
Tu
comunista, vero? mi
chiese mentre cenavamo alla buona sotto un pergolato e c’era
una nota di rimprovero in quelle tre parole, tanto che risposi a
disagio. Sì,
ma in Italia essere comunisti è diverso da qui. È dai
tempi di Praga che abbiamo preso le distanze da Mosca. Sofi
allungò la mano sul tavolo fino a stringere la mia, Noi
ora liberi ma in pericolo. Felici se voi ci appoggiate.
Non mi domandai se fosse un suo pensiero spontaneo o se stesse
parlando a nome di qualche politico convinto che io fossi influente
nel partito (e non lo ero affatto). A me premeva solamente che non
lasciasse la mia mano.
Quella
sera passeggiammo a lungo sottobraccio in una spola un po’
patetica tra l’albergo e casa sua, come avessimo tante cose da
dirci, e il più del tempo tacevamo. Alla fine la baciai
davanti al suo cancelletto in legno. Al momento del commiato, mi
disse seria tu
entra da me, domani parti.
Abitava
in due stanze scarne e dignitose, tanti libri l’unico
disordine. Ancora mi guardavo in giro per memorizzare tutto ciò
che potesse diventare ricordo e lei già mi aveva preso per
mano per condurmi al letto.
Non
ci scambiammo promesse, nemmeno recapiti, ma io il mattino seguente
mentre discendevo il viale verso la stazione sentii nel vento che
spirava dal mare un’aria ricca di futuro.
In
Italia resistetti due mesi come in gabbia, nessuno mi diceva tu,
bravo, a
nessuno mi riusciva di sorridere. Ripresi il treno e questa volta non
avevo alcun timore di confondere una città con un’altra.
Volli ripercorrere a piedi la lunga salita della Bergstrasse, mi
sembrava il modo giusto, di giusta fatica, per ritrovare il clima di
quei giorni. Guardavo le piante delle fucilazioni, le botteghe, le
trattorie e per ogni luogo, per ogni pietra del selciato, mi
riecheggiava in testa qualche sua parola.
Sofi
mi accolse con un sorriso delicato ma non mi fece entrare in casa.
Restammo a guardarci, ci separava il cancelletto bianco e
qualcos’altro di meno definito. Scosse la testa alle mie parole
di speranza e, allungando la mano sulla mia guancia mal rasata, tu
caro, ma la mia vita è altra.
Presi
un tassì e tenni gli occhi serrati fino alla stazione, non
volevo rivedere la strada
della collina. Più
difficile cancellare dalla mente Sofi, troppi interrogativi
irrisolti, troppa delusione. I binari a ritroso a mettere distanza,
il paesaggio che mutava per dimenticare Tallin, ma il suo sorriso un
enigma destinato ad accompagnarmi fino a casa.
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