La
carriola
di
massimolegnani
Bisogna
dirlo, Diego Petrilli era piuttosto arrogante. Non una cattiva
persona nel complesso, ma i tanti anni vissuti all’Olivetti
come ingegnere d’alto profilo gli avevano inculcato
un’esagerata fede nella tecnologia e nell’efficienza che
lui, una volta ritiratosi in campagna, aveva tradotto in uno sguardo
di superiorità, non del tutto involontario, nei confronti
dell’arretratezza dei suoi compaesani.
Aveva
ristrutturato la casa colonica dei suoi nonni dotandola di ogni
confort moderno e ora si dedicava alla cura del grande giardino con
una passione da gentiluomo di campagna. Aveva acquistato macchinari
sofisticati che riducessero la fatica e migliorassero la resa dei
suoi sforzi. Il suo orgoglio era un trattorino tagliaerba a cui
poteva all’occorrenza agganciare un rimorchio. Con questo
scorrazzava per il giardino rasando il prato all’inglese e
trasportando terra e pianticelle da un capo all’altro alla
ricerca della loro sistemazione ottimale. Lo scoppiettio del motore
non gli faceva udire il sibilo ritmato della falce che il suo vicino
si ostinava a usare per tagliare l’erba per i conigli.
Con
Osvaldo, il vicino, non aveva mai legato, due mentalità troppo
diverse. Diego gli parlava dell’ultimo acquisto, un tagliasiepi
elettrico particolarmente maneggevole, l’altro gli mostrava le
lunghe cesoie con cui già suo padre potava la siepe di bosso,
lui gli faceva vedere i guanti da lavoro di camoscio rinforzato
costati una fortuna, Osvaldo rideva mostrandogli i calli nelle mani.
Da parte sua il contadino gli consigliava la fase lunare più
favorevole per piantare i pomodori, lui replicava lodando l’efficacia
di un nuovo fertilizzante.
C’era
stata anche una controversia sui confini: da sempre il limite tra le
due proprietà era segnato da una grossa pietra che Osvaldo, da
contadino un poco ottuso e un poco scaltro, sosteneva che di recente
qualcuno aveva spostato. Diego pur con tutti i suoi difetti era una
persona corretta che mai avrebbe fatto una cosa del genere. Dopo un
estenuante batti e ribatti che si era trascinato per mesi, Diego
aveva fatto erigere un muretto alto come un uomo a partire da quella
pietra. Alle rimostranze di Osvaldo aveva risposto con un laconico il
confine giustifica i mezzi, che il contadino non aveva compreso,
ma che ad ogni buon conto aveva giudicato offensivo.
Con
la creazione del muro cessarono i loro scambi di battute e quel
continuo braccio di ferro tra modernità e tradizione. Finirono
con l’ignorarsi, solo un forzato cenno di saluto se capitava
d’incontrarsi per strada.
Diego
non se l’aspettava, il suo rozzo vicino gli mancava. Gli
mancavano i suoi consigli che mai seguiva, gli mancava la tacita
rivalità e quel po’ d’invidia che di sicuro
Osvaldo covava per i suoi attrezzi tecnologici. E c’era meno
gusto a usare le cesoie elettriche, il decespugliatore finlandese, il
soffiatore ultrapotente, adesso che non sentiva più i suoi
occhi seguirlo con malcelata curiosità.
È
sera. Diego è sul terrazzo con un bicchiere di vino e una
strana malinconia negli occhi. Da lì vede il prato del vicino,
c’è una carriola dimenticata all’aperto. La fissa
come un oggetto straordinario, la esamina pezzo a pezzo con
l’interesse che lui sempre dedica alle novità: una
ruota, una conca, due manici, la carriola ha uno schema costruttivo
elementare. Diego riflette e giunge a una conclusione che lo lascia
interdetto. La carriola nella sua semplicità è stata la
vera rivoluzione tecnologica degli ultimi secoli, per generazioni ha
alleviato il duro lavoro della terra. Altro che il mio trattorino,
mormora sottovoce. Col rimorchio!, aggiunge poi con un
sarcasmo amaro rientrando sconsolato in casa.
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