La
conigliera
di
massimolegnani
Era
sorto come residenza signorile all´epoca del boom, in un quartiere
nuovo, con l´ambizione di diventare il nuovo fulcro della città e
anch´io a quel tempo avevo un´ambizione, quella di diventare
qualcuno, ma le cose sono andate diversamente per entrambi, il
progetto non è decollato, la città si è sviluppata altrove
ignorandoci e col tempo questo caseggiato è diventato una conigliera
di periferia dove ogni sera torno con il mio carico di odio.
Queste
stanze, che sono le mie stanze da oltre mezzo secolo, di notte mi
sono insopportabili, a una cert´ora si accendono di suoni indigesti.
Quando alla sera taccio, queste stanze raccattano i rumori
dell´intero condominio, li scovano con una perseveranza da segugi in
mille anfratti e in cento variazioni, trasformandoli in frastuono.
Il
borbottio della caldaia cresce nei tubi fino a diventare, al quinto
piano dove abito, un respiro moribondo che però non muore mai. Il
ticchettio incessante della pendola oltre la parete del vicino sega
il mio tempo in tante briciole inservibili. Musiche esotiche,
ballabili italiani, opere liriche, salgono intrecciate lungo i muri
dai piani bassi alle mie orecchie, come la vite vergine, l´edera, il
glicine che s´arrampicano nelle case diroccate di campagna in un
groviglio inestricabile.
Ma
più dei suoni sono i rumori umani a raggiungermi ovunque mi
nasconda. La pisciata oscena, interminabile, del vecchio dalla
prostata malsana che ha il cesso sopra la mia testa, il rodeo di
colpi assatanati e gemiti esplosivi dei nuovi inquilini che non
bastano tre piani ad ovattare e poi tutto l´assortimento di incerta
provenienza, le risate grasse, i pianti isterici, le grida
sgangherate, le scoregge in solitudine, i rutti sparati in compagnia,
tutti i rumori assieme mi cingono d´assedio.
Così
ti scrivo per evadere. Carta e penna, vorrei pensarti bene, scriverti
di noi, ma il mio pensiero incespica, non passa la barriera, è
sopraffatto dal chiasso che inquina la testa e il foglio. E allora
finisco col parlarti delle voci dei vicini, squillanti o bitonali
come le trombe nello stadio, ti dico dei lattanti che reclamano col
pianto il seno o la bottiglia, e delle madri che gemendo si alzano
dai letti cigolanti e in sottofondo ronfano i mariti indifferenti
come gatti, ti racconto di anonime parole, dichiarazioni di
belligeranza o incaute frasi d´amore, che non voglio sapere a chi
appartengano, perché rifiuto di essere coinvolto dai suoni altrui.
Ti scrivo per evadere e resto intrappolato, appena poche righe e già
mi arrendo. Così abbandono la penna, appallottolo la carta, e mi
lascio sommergere dalla marea immonda dei rumori. Resto in ascolto e
riconosco il ragionier Trompetti che sproloquia in disperati
soliloqui, i coniugi Malfatti che fanno del litigio un´arte fine da
poltrona, e poi il catarro catramoso di Giovanni Pipoli che si
spolmona e sputa e non sono certo che sia nel lavandino, i gargarismi
lirici della signorina Lea, secca e tignosa, la flatulenza poderosa
di Lalla Gentili e il marito che timido protesta. Tutti riconosco e
odio. Provo un rancore preciso per ciascuno, sterminata diventa la
mia misantropia, capace di una strage.
Ma
poi tra tanta cacofonia odo una specie di musica triste, la tosse
sfiancata di Tommaso e il pianto soffocato di sua madre.
S´intrecciano indissolubili la tosse e il pianto oltre la parete e
io m´irrigidisco come un mulo che fiuta lo strapiombo. Non bastano
le mani sulle orecchie e i muscoli contratti nel rifiuto, quei due
suoni dolorosi mi penetrano dentro assieme all´aria che respiro. So
che lei, con la fronte appoggiata al muro appena dietro la mia nuca,
lei piange sommessamente. Ha gli occhi rossi come li vedessi e le sue
lacrime mi scorrono sul collo. Resisto ancora qualche istante, ma la
mia resa è lì che aspetta certa. Mi alzo dalla sedia, vado già
sfinito verso il mio confine, guardo il muro divisorio come vedessi
oltre, vedo la sua desolazione e passo la mano sopra la parete in una
carezza faticosa. Bacio l´intonaco dove sono i suoi occhi,
eternamente rossi, accarezzo la gola spossata di suo figlio. Poi
scivolo per terra e resto accoccolato insonne, veglio per ore la loro
notte disperata. Che i rumori maledetti non disturbino la tosse e il
pianto.