Il volto di lui com'era
racconto di Alois Braga
«Mi
ci sono voluti molti mesi per accettare l'idea di essere stata lasciata. Ma nel
caos di queste ultime settimane le cose sono cambiate. Mi sembra di ricavare da
ciascun giorno più di quanto avessi fatto in
precedenza, e in questo mio vivere alla giornata mi sento quasi più felice...
Mi sembra di apprezzare tanto di più a ogni momento che passa.»
Io
la guardai mentre mi parlava dall'altra parte del
tavolo, con una sorta di attrazione che mi sembrava nuova nei confronti di una
donna.
«E'
chiaro che all'inizio è stato un colpo durissimo...»,
lei continuò tranquillamente. «Mi ci sono volute molte settimane, dei mesi solo
per accettare l'idea. E anche se preferirei non essere stata lasciata, devo
ammettere che questa condizione ha impresso in certo
senso alla mia vita delle svolte... positive.»
«Quali?»,
chiesi a brucia pelo.
«Be', ad esempio, per la prima volta nella vita ho
cominciato ad esplorare la spiritualità, e ho scoperto in questo modo tante
cose su cui prima non avrei mai pensato di riflettere...»
Quasi
nello stesso periodo in cui lei si era ritrovata abbandonata dall'unico uomo
della sua vita che le importasse veramente, pensai in quel momento, il mio amico
scopriva di essere sieropositivo.
«...Ma
in quest'ultimo periodo, il dover realizzare e accettare la mia natura mortale
mi ha svelato un mondo nuovo.»
Io
scossi leggermente il capo, ma mi resi subito conto che lo disse con molta
tranquillità. Era sicura di sé. Non aveva dubbi. Sorrise. E lo fece con un
gesto della mano tra i capelli da cui a un altro sarebbe stato impossibile
difendersi. Ogni tanto qualcuno sfiorava il tavolo gettando uno sguardo su di
lei. Non mi ero mai reso conto prima, di quanto fosse
bella: i capelli, il volto, la pelle bianchissima, la forma degli occhi… Ma più
di ogni altra cosa là, quella sera, era la sua bocca a muovere la mia fantasia:
sia che ridesse o parlasse o tacesse.
Poi
lei si voltò stranamente a guardare per un attimo oltre il bancone del bar, e
continuò.
«La
felicità quotidiana... è in gran parte determinata dalla nostra visione delle
cose. Anzi, spesso il sentirsi felici o infelici nei
vari momenti della vita non dipende tanto dalle condizioni assolute
dell'esistenza, quanto dal modo in cui si percepisce la situazione, da quanto
si è soddisfatti di quel che si fa.»
Poteva
essere una coincidenza, ma certo che era strano. A poco a poco mi convinsi che
quella ragazza riusciva a leggere in me molte più cose di quanto io potessi
fare in lei. Naturalmente cominciai a chiedermi dove mai voleva arrivare: era
anche difficile capire che stava passando nella sua testa là in quel bar,
quella sera di un autunno fuori nebbioso e freddo.
Smettemmo
per un attimo di parlare. Ci guardammo negli occhi, in un modo indagatore.
Nello stesso istante mi sentii sopraffatto dall'emozione. Fu allora che lei, di
punto in bianco, mi chiese se non avessi nulla da
dire. Io mi sentii cogliere di nuovo da un senso di stupore, molto più violento
di quello che avevo avvertito un attimo prima.
«Cosa
vuoi sapere?...», mormorai sottovoce.
Allora
lei si staccò dal tavolo; appoggiandosi allo schienale della sedia diede
un'occhiata in giro. Quasi subito mi fissò di nuovo, sorrise e disse:
«Di
cosa hai paura?... Perché tu hai paura!». E tornò a
guardarsi intorno.
In
quel momento nel quale ogni cosa in quel bar sembrava non esistere più, perché
stavo cercando di mettere insieme le parole per dire una cosa di me che mi sarebbe
piaciuto farle sapere, in quel preciso istante capii che di lei mi potevo
fidare. Completamente. Allora là, al tavolo, mi sporsi un po' in avanti e dissi
quella cosa che avevo pensato qualche minuto prima.
«Quasi
nello stesso periodo in cui tu ti sei ritrovata abbandonata dall'unico uomo ti importasse veramente, il mio amico ha scoperto di essere
sieropositivo...»
Lei
riprese a guardarmi, immobile e in silenzio. Mi interruppi per un attimo. Poi
continuai.
«Milano,
quel giorno, era bellissima nonostante la foschia che perennemente la avvolge. A dispetto della solita sofferenza metropolitana di
una città abitata da persone trivellate di buchi, di cavità, di pertugi
doloranti. Come se tutti fuggissimo da una battuta di caccia il cui unico fine
non è tanto quello di venire catturati, ma di arrivare
ad essere stanati cambiandoci l'ordine del nostro habitat. Quasi
improvvisamente, a poco più di vent'anni, quella mattina mi resi conto di
essere diventato un uomo. Non ero più il ragazzo e non ero più l'immortale.
Lui, il mio migliore amico, mio amante, stava morendo in quel letto infame
d'ospedale.»
Lei
si tirò indietro una ciocca di capelli che le era scesa sugli occhi. Per un
attimo rimasi in silenzio ad osservarla.
«Quando
varcai la porta di quella stanza, la luce del primo mattino entrava dalla
finestra quasi a volerla riscaldare. C'era un forte odore di ospedale. Era
tutto così compiuto. Lui stava dormendo, o sembrava dormisse un sonno leggero
fatto di piccoli e impercettibili movimenti. Quando mi vide in piedi accanto al
letto, lui girò la testa lentamente, verso il braccio in cui aveva infilato
l'ago della flebo. L'ago che lo stava nutrendo con una
fatica estrema, e per l'ultima volta. Mi accostai piano e gli toccai appena la
mano. Lui mi guardò dai suoi occhi neri, profondi, in un volto scavato, e fece
a fatica un cenno con la testa. Dal fianco del letto, da sotto le lenzuola
candide scendevano alcuni tubicini scuri; uno di questi terminava in un
sacchetto di plastica trasparente pieno di un liquido giallastro, orina
presumevo.»
Lei
disse qualcosa che non capii là, al tavolo. Probabilmente mi chiese se ne
volessi una, perché si accese una sigaretta e si mise a fumare.
«Per
un po' rimasi lì a guardarlo. Non mi sarei mai aspettato di trovarlo così dimagrito,
quasi scomparso. I capelli, i suoi bellissimi e lunghi capelli castani, rasati
a zero. E la pelle, ridotta a un sottile strato, che urlava tutto il dolore di
quel corpo rivoltato e martoriato. Del lui che conoscevo, rimanevano ben poche
cose, forse solo gli occhi: grandi, ancora più larghi. Due buchi profondi e
spalancati che mi fissavano immobili da quel letto di morte e sembravano
ripetere ossessivamente una sola cosa: “Perché proprio a me?”. Avrei voluto
potergli rispondere. Ma non ne ero capace. A volte si è troppo vigliacchi per
rispondere. Sentivo il cuore battermi forte alle tempie.»
Avrei
voluto che lei dicesse qualcosa, ma non disse nulla. Allora andai avanti,
fissandola nei suoi occhi grigi.
«“Stringimi la mano…”, mormorò lui nel vuoto di quella stanza
d'ospedale. “Ho tanta paura di morire”. Io deglutii mentre
gliela prendevo, quella mano ancora più lunga e sottile, portandomela al viso.
Sentendo il calore della sua pelle squarciata sulle mie labbra, avvertii
all'improvviso che le atrocità ch'egli aveva dovuto sopportare lo avevano già
ucciso. Inesorabilmente. E per la prima volta nella vita vidi quello sguardo.
Lo sguardo di chi sta per morire. Lo vidi nei suoi occhi, negli occhi di un
amico che mi era stato amante, che implorava senza fiducia un aiuto che non gli
potevo dare. E non gli verrà mai dato.»
Lei
si sporse in avanti, sul tavolo. Sentivo il suo sguardo su di me, e non
riuscivo a proseguire. Lei disse anche qualcosa sottovoce, ma non ricordo cosa.
Allora mi guardai intorno, come a cercare la via più breve per finire. Poi
ripresi a raccontare.
«“Vedrai
che uscirai presto…”, fu l'unica cosa che riuscii invece a dirgli là, in quel
momento. “Il più è fatto.”. Lui girò la testa dalla parte opposta, e chiuse lentamente
le palpebre. In quel preciso istante mi resi conto che qualcosa in noi si era
definitivamente spezzato. Con il cuore devastato dalla sofferenza, che mi
urlava dentro, capii che era ora di andarmene, da là. Compresi che non potevo rimanere un secondo di più, a cercare di aiutarlo a
morire. Non lo avremmo sopportato. Per oltre un anno abbiamo vissuto insieme,
studiato insieme; ci siamo strapazzati, anche odiati, ma soprattutto ci siamo
amati con passione. E adesso lui stava morendo. Il ragazzo con cui avevo
vissuto la mia prima grande esperienza d'amore. Allora lo guardai per l'ultima
volta in fondo alla stanza, e pensai che quando sarei uscito da là sarei andato
dalla madre a dirle quanto le volessi bene e quanto avessi amato suo figlio. Lo
salutai così, prima di vederlo uscire per sempre dalla mia vita: “A presto…”,
dissi. “Cerca di guarire.”. Ma mi porterò dentro per
sempre quegli occhi spalancati, sul letto di quella stanza d'ospedale.»
Emisi
un sospiro profondo e mi voltai verso di lei. Mi stava di nuovo fissando. Però
in un modo diverso. E solo in quell'istante vidi, nel
suo volto, il volto di lui com'era, fresco e delicato, perfetto. Vidi quelle
labbra socchiuse e quegli occhi in questi, e tutta la bellezza di lui
manifestata in quella di lei. Allora mi avvicinai piano al suo viso e gliele
sfiorai appena con la punta di un dito, quelle labbra che tanto ho amato. E la baciai, premendo quelle labbra forte, sempre
più forte, e con gli occhi chiusi.
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Alois
Braga, milanese, nasce nel 1978.
E' stato
l'ideatore e l'artefice di isogninelcassetto.it
Laureatosi in Scienze della Comunicazione, ha lavorato in
pubblicità come copywriter freelance.
Scriveva
perché non poteva farne a meno. Suoi racconti sono usciti in diversi siti di
letteratura online.
Alois
Braga muore prematuramente il 23 maggio del 2004.