SA JANA REINA
( La Fata
Regina )
…Ed empirai di latte,
spada mia, la coppa ardente. Capezzoli di ginestra i muri prepotenti ai quali
romperai ogn'indugio, e dita come rami d' oceanico seme, giù, oltre il buio dolce dove non c'è
stagione e primavera, sempre, dimora.
-Incredibile-, pensò a voce grezza e alta Sisinniu Scanu, e sorrise.
-Incredibile aberu-
ripetè più forte.
Ora il torace si sollevava ed abbassava convulso, i
denti gli si erano legati assieme.
Il sorriso era scomparso e l'uomo scandagliava
attorno con occhi quasi severi.
Nove teste, rase e pidocchiose, sparpagliate à pedire attorno alla tavola comente
sos pilos aintru ‘e su mucadori
nieddu ‘e thia Peppa,
sa muzere de maistru ‘e muru de cussa bidda
‘e mortos, intenta nel brusìo
a sollevare con cucchiaio e forchetta dalla scodella di portata tre culurjones tre colanti di salsa al lardo, pecorino e menta
per ogni bocca e pancia vuota; puntarono finalmente la testa più pensante della
famiglia.
E ammutolirono. Gli occhi grandi di bambini e madre
– caldi, uguali, circondati da una raggiera di ciglia nere- sostennero
pacatamente lo sguardo del capo famiglia. Oltre i vetri latrava un Eolo
impaziente, randagio, BalenteBelante; frustava
i faggi assonnati piegandoli come canne e come canne, da padrone, facendoli sònare, vibrare, parlare di nenje
di streghe antiche e, da amante, palpitare, gemere. Si diceva che, fra quei
faggi, avesse vissuto una fata dalla pelle d'ebano e gli occhi di carbone
ardente, strappata al suo mare da un destino crudele. Si diceva che avesse
amato solo una volta, Regina, amato il suo Re tanto da togliergli respiro ed
anima e pensiero, amato tanto da lasciarlo andare, poi, scappare lontano,
affinché il suo amore non potesse togliergli anche la vita. E si diceva che fu
allora, che la fata cominciò a perdere i pezzi del suo cuore, a perdersi
lei stessa nei meandri della propria mente. Ogni passo, ogni volo, ogni luogo
erano per lei ricordi, AmmentiFrammenti ‘e suferentzia. E in ogni passo, ogni volo, ogni luogo un
pezzo di cuore naufragava nei tempi; cuore di fata debole, come debole è il
cuore dell'uomo.
E sedette in una roccia la Fata, e cominciò ad urlare
per la disperazione. E l'urlo vento divenne e tempesta e uragano orrore d'ogni
creatura. E poi quiete. Ed impazzì, la Fata. E ancora vaga in forma di civetta, la bocca
di ciliegia divenuta becco scuro e duro d'osso, viola passita e pazza d'amore e
senza mente e senza cuore, alla ricerca di chi non è più.
Fata, la
Fata, Sa Jana Reina,
E in sos mirtos, s'àrroccas su cantu (dal seno, pieno, il succo),
fùriosu su mare,CàstiaCàstiadi:
in ie sa mente, su còro
OdoreDolore di Fata e fèmina,
màlaria, malàdia ‘e amore
(sudore)
E nessuno si, mai, potrà consolare.
Sisinnio ci aveva sempre creduto.
Alla Fata, ci aveva sempre creduto.
Ricordo che andava cincischiando in giro, quelle
volte in cui su binu ‘onu,
il vino buono era stato per lui più buono del solito tanto da convincerlo che
sì, poteva mandarne giù ancora qualche litro senza pesanti conseguenze per
fegato, denari e moglie; che l'aveva vista lassù, gemere in cima à s'àrroccas; piangere di un pianto strano, magico, prima
di bambina, poi di giovinetta e donna. Infine diveniva urlo, quel pianto, urlo continuo, e lungo, senza
modulazione né tono.
Urlo di civetta, pareva. O di gatto impiccato.
E diceva Sisinnio che la Fata l'aspettava.Proprio così: l'aspettava.
Che gliel'aveva promesso lei.
E promessa di Fata è promessa
mantenuta.
E lui ci credeva ché voleva crederci.
Credere all'incredibile.
-Incredibile aberu-
mormorò Sisinnio.
E ora che gli anni erano passati, e così la
giovinezza, l'uomo si guardava attorno e lì, dove aveva creduto di vedere le
testine rase, le sedie erano vuote, e vecchie quanto lui. E lì, dove aveva
creduto di vedere la giovane moglie, incinta dell'ultima creatura bèddha e prena, intenta a
servire i culurgjones colanti di sugo all'aglio,
lardo e menta e sussurrare antiche preghiere scacciadiavoli;
in realtà c'era il buio, e solo buio e quel brusìo di
voci ora parlava di silenzi ché thia Peppa con la
terra ora parlava, non più con Sisinnio.
Due notti prima gli era apparsa, Peppa, come
frequentemente gli appariva in quegli ultimi tempi. Sisinnio conosceva il
significato di quelle apparizioni; sapeva che stava avvicinandosi per lui il
momento di partire.E
doveva salutare la terra, le cose terrene che aveva conosciute e amate e odiate
durante tutta la sua sconsacrata vita, salutare la terra prima che la terra
aprisse le sue porte per accoglierlo dentro sé, farlo
ritornare da dove era venuto.E Peppa stava ai piedi
del letto di Sisinnio, due notti prima. Lui s'era svegliato di soprassalto e
l'aveva vista così, bianca e pura come vergine, bianca e pura come l'aveva
conosciuta non ricordava più quanto tempo prima.Aveva diciassette anni, Peppa, quando Sisinnio l'aveva
incontrata per la prima volta, e ritornava dal fiume con le sue amiche, carica
dei panni lavati dei fratelli e della madre vedova.Era
bella, Peppa. Sisinnio ricordava che cantava sempre; lui e gli altri pastori
sapevano che Peppa era al fiume a lavare quando ne
sentivano arrivare, tra i mirti e i fusti di fico d'India, la voce; quel canto
di sirena acerba.Allora Sisinnio s'infrattava tra i cespugli e in amore, soltanto e
semplicemente, la guardava lavare e cantare, ridere con le amiche di disgrazia.
Eccola lì davanti a lui, ancora, Peppa, due notti
prima. Muta, sorridente.
-Peppinè…-,
-…Peppinedda mea…-.
Poi Peppa era scomparsa.
Doveva salutare la
terra, Sisinnio, prima d'entrarci dentro, salutare chi aveva amato e chi
aveva odiato.
Ora,
era arrivato il momento di farlo.
E uscì di casa, Sisinnio, che la
luna già s'alzava prepotente, stagliata tra tetti e aie e le colline giù,
all'occhio parevano fianchi o corone, scrigni attraversati da cicatrici spurie,
IncerteIrrequiete non segnate dalle mappe; quei
fiumiciattoli magri e stinti come le pecore quando l'acqua manca e la terra
abortisce d'erbe.
L'avevano seppellita lì, la bambina.
Erano passati trent'anni ma Sisinnio ricordava perfettamente il posto, quel
sughero leggermente ricurvo a destra, un ramo ad indicare il cielo, l'altro la
terra come che quella bara naturale fosse in realtà un tramite ardito tra un
elemento e l'altro, tra spirito e corpo. Un fico d'India era cresciuto
estendendosi in maniera spropositata quasi ad abbracciare, cingere, proteggere
l'albero e soprattutto ciò che l'albero nascondeva, ed erbetta fine, e fresca,
a quell'ora della notte umida e più tenera,
confortata dal canto delle cicale e la fragranza orgogliosa dei cespugli di
felce.
Giunse lì dopo poco cammino nel bosco,
attraversando il sentiero celato dai corbezzoli e rovi. Fissò l'albero tra gli
alberi e nel buio fitto non lo vide con gli occhi, lo vide con la mente. E con
la mente rivide Peppa, piantata lì come il sughero, ad indicargli la via senza
parlare. Sisinnio annuì, cadde in ginocchio e mormorò antiche preghiere. Poi
prese a scavare la terra brulla a mani nude, ficcò le dita forte e grattò fango
e radici, scavò e scavò. Smise, alzò il volto al cielo e, davanti a lui, Peppa
intimò scava ancora. E Sisinnio scavò ancora, e ancora, e ancora che gli
pareva di non dover mai finire di scavare.
Toccò qualcosa, un sacco di tela grezza pareva.
E Sisinnio sussultò al ritorno del passato, che fu
come uno schiaffo.
Ed ecco la bambina, una zingara figlia di zingari,
dicevano che fosse in paese.
L'avevano vista camminare per le strade con la madre mezzo nuda al fianco per qualche giorno, poi
neppure più la madre s'era vista.
Ed era andata, la bambina,a
cercargli del formaggio mentre Sisinnio pascolava pecore e capre ed il cane
abbaiava ai falchi
E lui le aveva dato formaggio e pistoccu
ed erano diventati amici; del resto zingari tutti e
due erano, chi di corpo, chi di mente. E tutti e due bambini erano, chi di
corpo, chi di mente
“E torna a trovarmi” le aveva detto Sisinnio
“E si” aveva risposto la
bambina
Ed era tornata, per quindici giorni di fila, era
tornata lì alla tanca, vicino à su riu ‘e preda, tra
sugheri e canne e menta odorosa
E il sedicesimo giorno era caduta nel fiume
(lui voleva strapparle un bacio – l'unico- e lei era scappata ridendo)
E aveva battuto la testa sul fondale
Ma Sisinnio sapeva che nessuno l'avrebbe cercata
perché la zingara, per gli altri, era Nessuno
E Sisinnio sapeva che avrebbero dato la colpa a lui
di averla spinta nel fiume
E Sisinnio il Maresciallo Giommaria Trimarchi, un continentale, non l'aveva cercato
Nemmeno avvisato, l'aveva
Senza vergogne aveva chiuso la zingara nel sacco
che il suo padrone usava per metterci il resto da dare ai maiali giù in paese
E il sacco l'aveva seppellito piangendo
E sapendo di fare peccato sapendo che tutta la vita
quel peccato l'avrebbe pianto e così davvero era stato
Sotto una piantina di sughero strana che a lei
piaceva tanto perché curvava il fusto e aveva un ramo che indicava il cielo,
l'altro che indicava la terra
La zingara era la prima che Sisinnio aveva davvero
amato, senza saperlo.
Amata come gli angeli amano.
Peppa sorrise e Sisinnio uomo pianse,
e
Peppa scomparve
e
Sisinnio gemendo pulì il sacco dalla terra,
Perdonami Signore perdona il
peccatore perdonami zingara chè seppellita da femmina
e non da bestia, dovevi essere, e non nascosta dalla vergogna degli altri
Perdonaperdonaperdonaperdona…
E Peppa, e sa Jana Reina eccole
assieme e la zingara lì, Angelo bambina a dare una mano ad una ed una mano
all'altra.
E Sisinnio comprese d'essere stato perdonato,
dalla TerraDio,
perdonato.
E con Peppa, sa Jana Reina e la Zingara Bambina
danzò tutta la notte
Dicono che lo videro danzare su ballu tundu
E danzare e danzare e danzare
Fino a che il cuore gli scoppiò di danza e di felicità
E qualcuno lo vide danzare.
(E ancora oggi, qualcuno lo vede
danzare).
Ma don Puddu coi suoi
chierichetti, la mattina, bussò alla porta di Sisinnio per accoglierne la
confessione e dargli l'ostia, come faceva ogni giorno.
E lo vide così, Sisinnio, che pareva addormentato
sulla sedia.
E don Puddu disse in
paese che Sisinnio sorrideva; disse proprio così: sorrideva.
In tavola undici scodelle e undici bicchieri
avevano trovato
E al centro della tavola in su
tàlleri trentanove culurgjones
trentanove, tre a testa per ogni bocca e
pancia vuota
E una civetta silente abbarbicata sulla tredicesima
sedia,
le
ali chiuse, il capo chino.
G.Mulas, Olbia-Roma 29/06/2004, h. 07.40