Voci che si rincorrono nei sotterranei. Alberi che
stendono braccia di rami nella notte scura.Vento che
fischia, mi dico. Rumori della notte che avanza. Capita nelle vecchie case di
queste pianure lombarde. Casolari sperduti nella nebbia tra campi di grano e
campagna sterminata. Capita, mi dico. E allora perché non sono tranquillo?
Forse per via della leggenda che mi raccontarono il giorno che venni a comprare
questo casolare. Forse per quel che accadde…
Ho speso tanto denaro per farne una villa. Qui
volevo venire ad abitare. Questo era il sogno di mio padre. A lui sarebbe
piaciuta Pavia, si sarebbe perso ad ammirarne la delicata bellezza da città di
provincia, i ruderi, il vecchio ponte, i navigli e la vita che scorre lenta
racchiusa da una cinta di mura. Diceva sempre che avrebbe
voluto morire dove era stato bambino. Era nato a Lecco sulle rive di un
lago in perenne silenzio. Costretto a vivere a Milano nella frenesia d'una
fabbrica che aveva messo su a prezzo di fatica e rinunce. Lo ricordo come un
uomo solo, sempre triste e pensieroso, invecchiato nel ricordo della mamma. La
mamma vestita di stoffa sottile è passata come un soffio di vento nella mia
vita. Un tumore se la portò via che ero appena un bambino. “Dobbiamo accettare
il destino” diceva mio padre. Io non capivo neppure cosa fosse il destino.
Giocavo con i regali di Natale, credevo ancora alle fiabe e la mamma se ne
andava per sempre.
“Un giorno ce ne andremo via di qui” proseguiva mio
padre.
Lui odiava Milano e la vita di città, lo stress, le
abitudini. Poi intorno c'erano solo cose che gli ricordavano la mamma ed era
questa la cosa più difficile da accettare.
“Un giorno smetterò di lavorare e ce ne andremo in
campagna. Voglio tornare a Lecco, comprare una casa sul lago. Oppure un
casolare padano e farne
una villa”.
Non so se lo diceva per darsi una speranza e per
non pensare. Forse credeva davvero che un giorno sarebbe stato capace di farlo.
Ma io lo sapevo che non era così. Lui non avrebbe mai abbandonato la sua fabbrica
e il suo lavoro. Erano la sua unica ragione di vita.
Adesso sei morto papà. Te ne sei andato via con i
tuoi sogni mai realizzati. Ma quella casa ho deciso di comprala
lo stesso e di darle il tuo nome. Mi hai lasciato tanti soldi con il tuo il
lavoro di una vita e la fabbrica adesso è così ben avviata che va avanti anche
da sola. C'è un direttore che pensa a tutto, a me basta fare solo qualche
controllo, di tanto in tanto. Non devo lavorare per vivere. Grazie a te. Grazie
a quel che mi hai lasciato. E allora non mi resta che un modo per onorare la
tua memoria. Realizzare un sogno. Un tuo vecchio desiderio.
È solo per questo che sono venuto qui.
Perché i sogni diventassero realtà.
L'agente immobiliare mi disse che Villa Arcon era perfetta per quel che volevo fare.
“È un casolare padano vecchio stile e non costa
molto. Certo che ci sarà da lavorare e da spendere per rimetterlo in sesto”.
Quello era un particolare che non mi interessava.
Tempo e danaro non mancavano. Realizzare il sogno di mio padre, invece era
l'unica cosa importante. Partii da Milano all'alba di un sabato d'inverno.
Solo. Volevo assaporare la sensazione di attraversare la città di primo
mattino, al risveglio. Catturarne il fascino discreto fatto di semafori spenti
e di nebbia sottile che accompagna il rombo del motore. Volevo arrivare presto
a Pavia. Gettare il mio sguardo ansioso per i navigli sotto l'antico ponte. La
mia vita ancora oggi è fatta di solitudine, di incontri fugaci, senza impegni.
Non sono tipo da famiglia, non ho intenzione di promettere il futuro a una
donna. Tutte quelle che mi girano intorno vogliono soltanto il mio denaro,
l'immensa fortuna che ha lasciato mio padre. Sono giovane ancora. Per adesso me
la godo e non ho bisogno di nessuno che mi aiuti a farlo. Le donne non sono mai
state un problema, so dove trovarne quando ne ho voglia. Di solito preferisco
la solitudine e respirare il silenzio della nebbia mattutina alle parole di una
donna. Preferisco svegliarmi solo in una casa priva di doveri. Vivere è
soltanto questo per me. Cogliere gli istanti. Almeno per ora.
Vidi Pavia che il sole cominciava ad annaspare tra
la nebbia. Il silenzio rotto soltanto dal rintocco dei campanili, le strade che
cominciavano ad animarsi, l'odore di caffè e di paste calde dai bar appena
aperti. Le cose che mi piacevano. Quelle che ero venuto ad assaporare in quel
mattino d'inverno. Scesi dall'auto e alzai il bavero del cappotto. Faceva
freddo. Avevo parcheggiato proprio vicino al vecchio ponte coperto. Il Ticino
scorreva lento e tranquillo. Mi lasciai penetrare dal sapore consueto dell'aria
umida e gocce di nebbia solida mi bagnarono il viso. Il fiume era l'immagine
della città e di una vita che passava con lentezza. Io ero al riparo
dell'antico ponte ed ero padrone dell'orizzonte e di quel che la nebbia
lasciava intuire.
Tutto
questo a mio padre sarebbe piaciuto,
pensai.
L'odore del caffè che proveniva dal vicino bar si
fece più intenso e mi distolse dai pensieri. Il caffè per me è un vizio
irrinunciabile. Ne consumo uno ogni due ore anche se
il medico dice che fa male. Papà è morto d'infarto a sessant'anni
e non poteva soffrire il caffè. La mamma se l'è portata via un cancro allo
stomaco, nonostante facesse diete di ogni tipo e
mangiasse soltanto cose sane.
I bar di provincia sono pieni di gente strana.
Chiacchieroni. Sputasentenze. Tecnici di calcio. Persone che aspettano il primo
forestiero per attaccare bottone. Di solito cerco di evitare personaggi simili.
Quel giorno però mi serviva uno di loro, uno che sapesse tutto della città, che
conoscesse persino i casolari più sperduti. Dovevo
chiedere informazioni su Villa Arcon, non sapevo
neppure dove fosse. Seduto al tavolino osservavo i clienti. Accanto a me c'era
un tipo dall'età indefinibile, alto, capelli e barba
rossiccia. Nello stesso tempo che bevvi il mio caffè lui fece fuori tre campari.
“Mi sa dire dov'è Villa Arcon?”
chiesi.
“Villa Arcon?” rispose
lui meravigliato.
“Sì, Villa Arcon”.
“E cosa ci va a fare a Villa Arcon?”.
Il fatto che fossero affari miei non lo sfiorò
neppure per un attimo. È fatta così la gente di provincia e se chiedi
un'informazione devi sottostare a ogni loro curiosità.
“Ho un appuntamento con l'agenzia immobiliare per
trattarne l'acquisto”.
“Oh, questa sì che è bella…” fece lui.
E si lasciò andare a una risata sguaiata.
“Non vedo cosa ci sia da ridere se io voglio
comprare una casa”.
“Se Villa Arcon fosse una
casa come tante avrebbe ragione lei…”
Il tipo cominciava a incuriosirmi.
“Cosa c'è di particolare a Villa Arcon?” chiesi.
“Se mi offri un campari te lo dico” rispose.
Era passato al tu. Ormai eravamo in confidenza.
Stava per rivelarmi una storia importante. Pagai il campari e ci sedemmo al tavolo.
Lui se lo bevve in un sorso. E sono
quattro, pensai. Cominciò a raccontare.
“Villa Arcon qui la
conoscono tutti come Villa dei lamenti e nessuno oserebbe avvicinarsi alle sue
mura”.
“Perché?”.
“La storia è lunga e risale alla metà del
milleseicento. Allora vi abitavano le quattro sorelle Arcon,
le ultime proprietarie della villa. Villa dei lamenti da allora è disabitata”.
“Come mai?”.
“La famiglia Arcon era la
più ricca e nobile del paese, però le quattro sorelle erano donne
terribili”.
“In che senso?” chiesi sempre più incuriosito.
“Si diceva che fossero streghe. Cominciarono a
sparire dei ragazzi nei pressi della villa e nessuno seppe più niente di loro.
I corpi si volatilizzavano. Il paese fu preso dallo sgomento e un giorno la
rabbia esplose con l'assedio alla villa. I popolani la misero
a ferro e fuoco e catturarono le quattro sorelle, quindi le trascinarono nel
sotterraneo e le torturano fino alla morte. È la sotto che le seppellirono. I
corpi dei ragazzi scomparsi però non vennero mai
ritrovati”.
“E con questo? È una storia di tanti anni fa…”.
“Sì, però i lamenti si sentono ancora. E non si sa
se sono le grida delle streghe o delle loro vittime. In certi giorni nella
villa si accendono fioche luci, la gente che passa di là racconta di aver udito
strane risate, lugubri e agghiaccianti grida di terrore…”.
“Sono leggende. Soltanto leggende” conclusi.
“Al tuo posto prenderei la macchina e me ne
tornerei a Milano”.
“Come fai a sapere che vengo da Milano?” domandai
meravigliato.
“Hai l'aspetto del cittadino e poi si vede che non
sei di queste parti” sorrise il tipo.
La storia era inquietante, però era una delle tante
storie di streghe che si narrano attorno ai casolari
abbandonati. Non c'è paese che non abbia la sua.
Decisi di pagare il conto e di lasciare il bar per andare a vedere da vicino la
mia futura villa.
“Villa Arcon è proprio in
fondo al fiume. Segui per la strada da dove sei venuto e non puoi sbagliare.
Però non ci andrei” concluse.
Lo salutai con un sorriso.
“Non credo alle favole. Sono grande ormai”
dissi.
Ripresi la guida nella nebbia di quel mattino
d'inverno. L'appuntamento con l'agente immobiliare era fissato per la tarda
mattinata e avevo un paio d'ore libere per visitare da solo il casolare. Quando
lo raggiunsi notai che era davvero in pessimo stato. Pareti cadenti, porte
sgangherate, erbacce incolte, imposte divelte. A dar retta a quel che diceva il
tizio del bar erano secoli che non vi abitava nessuno. Però porte e finestre
erano abbastanza moderne, sia pure in cattive condizioni, era evidente che
qualcuno vi aveva preso rifugio in tempi recenti,
magari di nascosto. Forse il casolare era stata residenza clandestina di
qualche extracomunitario di passaggio. Ce n'erano tanti da quelle parti e la
cosa avrebbe spiegato le luci e i rumori. Chissà. Scesi dall'auto e mi avventurai
tra la folta vegetazione. Uno stradello conduceva
alla porta d'ingresso e anche quella era una traccia che qualcuno vi aveva
abitato da poco.
Quel
vecchio ubriacone ha detto un sacco di balle, pensai.
Avevo davanti un solido portone di legno con i
pomelli in ferro battuto. Fu sufficiente una spinta
con il palmo della mano per
aprirlo. Dentro pareva una casa abbandonata da secoli. Ragnatele
e muffa. Scheletri di vecchi mobili. Lampadari cadenti. Se qualcuno aveva
abitato nel casolare lo aveva fatto senza toccare niente, utilizzandolo solo
come un rifugio. Un ampio salone faceva da ingresso e una scalinata conduceva
ai piani superiori, mentre una porticina in fondo alla sala doveva portare ai
sotterranei. Chissà perché decisi di aprire quella porta e scendere le scale
che conducevano alle zone più segrete del casolare. Forse per via del racconto
che l'uomo del bar mi aveva fatto. Forse perché le cose misteriose mi hanno
sempre affascinato. Non so. Cominciai a scendere mentre
assi di legno marcito facevano affondare i miei piedi e udivo rumori
inquietanti. Parevano lamenti, o forse mugolii di piacere. Saranno dei gatti, pensai. E continuai la discesa. Intorno avevo
soltanto buio e silenzio e i rumori si facevano sempre più vicini a ogni
scalino che scendevo. Quei rumori come lamenti di donne, come sussurri di
vento. Che cosa erano? Confesso che cominciai ad avere un po' paura. Ripensavo
alla leggenda delle quattro sorelle Arcon e alle
parole dell'uomo. Nel sotterraneo c'era la loro tomba, aveva detto. E i lamenti
venivano proprio da là.
Gatti,
sono solo degli stupidi gatti,
pensai per farmi coraggio.
Quella poteva essere la mia futura casa, la villa
che mio padre avrebbe sempre voluto per sé. Ero là per decidere se comprarla e
dovevo esplorare anche quel sotterraneo.
Le streghe
non esistono - pensai - Sono tutte leggende.
Completai la discesa. Arrivai in uno scantinato
buio e freddo, tutt'intorno c'era soltanto umidità e
muffa. In fondo alla stanza brillava una piccola luce. Ragnatele pendevano dal
soffitto di travi e ostacolavano il mio cammino. E i lamenti si facevano ancora
più forti.
A Villa
dei lamenti ci sono le streghe, mi
ripeteva una voce.
Scappa
finché sei in tempo, insisteva.
Io invece andavo avanti. Avevo paura
ma andavo avanti.
Arrivai al punto illuminato dalla fioca luce e vidi
una branda, un materasso sporco. Accanto al giaciglio c'era uno spettacolo
orrendo di cadaveri ammucchiati l'uno sull'altro. Saranno stati una decina.
Tutte giovani donne. Mio Dio, sì. Erano proprio dei cadaveri di ragazze. Lo
ricordo con ribrezzo e con orrore. Affluiva alla bocca un senso di disgusto e
repulsione, trattenni a stento conati di vomito
davanti al raccapriccio della scena che si svolgeva davanti ai miei occhi.
Perché accanto ai cadaveri c'era lui che emetteva quei suoni. Erano
mugolii di piacere che sembravano lamenti. Lui, quel folle maniaco, quel turpe
essere deforme che intravidi nascosto dall'ombra delle scale. Lui che
accarezzava un corpo privo di vita, maledetto porco. Un cadavere ancora fresco
di una giovane ragazza. Lo palpava, diceva parole incomprensibili, poi si
stendeva sopra e faceva l'amore. Mio Dio, sì. Faceva l'amore tra mugolati di
piacere che erano lamenti d'un folle.
Forse la verità era peggiore della leggenda. Non
c'erano le streghe in quel casolare abbandonato ma un pazzo necrofilo. Un folle
assassino di ragazze che uccideva e trascinava le sue vittime in quel
sotterraneo dove dava sfogo alle sue voglie assurde.
Non mi vide, per fortuna. Non so cosa sarebbe potuto accadere.
Scappai via da quella scena che mi faceva ribrezzo.
In auto avevo lasciato il telefono cellulare. Chiamai subito la polizia e fu
così che lo vidi arrestare quel porco.
Nei giorni seguenti si seppe la verità. Non erano
le streghe a fare rumori e ad accendere le luci a Villa dei lamenti. Era il becchino, invece. Un folle individuo nato
deforme, un anormale che parlava poco ed emetteva soltanto sordi mugolii. Era
lui che faceva l'amore con i cadaveri delle ragazze che trafugava dal cimitero.
Il becchino le portava con sé nella dimora in fondo al fiume, poi le conservava
in quella specie di cantina e faceva l'amore con loro sino a
quando i cadaveri erano intatti. Non uccideva. Per fortuna si limitava a
profanare le tombe e dava sfogo alla sua depravazione. Era un povero demente,
non un omicida, per fortuna. L'orrore era già sufficiente.
E adesso vivo qui. Villa Arcon
è diventata Villa Leonardi in ricordo di mio padre ed
è la casa più bella di Pavia, quella dove lui sarebbe voluto scappare, se
soltanto gliene avessero lasciato il tempo. La storia
del necrofilo è acqua passata e ancor più la leggenda delle sorelle Arcon. Ho rimesso in sesto il casolare. Ho comprato mobili
antichi, lampadari di lusso, tappeti e arazzi. Ho speso una fortuna per
sistemare questa casa, perché è qui che mio padre avrebbe
voluto morire. Ci vivo da solo. Le donne vanno e vengono
ma non sono mai le stesse. Facciamo l'amore nella camera al piano
superiore, quella arredata con specchi e cuscini. Ho un letto a due piazze solo
per comodità. Tanti domestici che pensano a tutto, una cuoca,
la servitù che cura il giardino. Vivo come un signore, come un nobile d'altri
tempi. Non devo sporcarmi le mani con il lavoro. Nel sotterraneo ho costruito
una cantina dove tengo le botti del mio vino preferito, le annate migliori che
faccio venire dalla Franciacorta. Però in quel sotterraneo i domestici non ci
vogliono scendere. Hanno paura delle voci, dicono. Sentono i lamenti. E sono
sempre io che devo andare a prendere il vino e fare la strada che mi terrorizzò
il giorno che scoprii quel folle. Le scale adesso non cigolano più, le ho fatte
costruire di pietra serena. Le travi al soffitto sono robuste e solide. E
allora sarà soltanto il ricordo del terrore di quel giorno. Saranno le
leggende, le cose che mi hanno raccontato.
Perché io le sento quelle maledette voci. Continuo a sentirle. Sono mugolii di piacere e
lamenti. Sono lugubri folate di vento gelido che accompagnano i miei passi.
Sono parole incomprensibili gettate nella notte. E io scappo veloce dal
sotterraneo stringendo il mio vino. La maledizione di Villa Arcon
non è destinata a finire.