Quest'anno ricorre il primo centenario
dell'inizio, per ll'Italia, della Grande Guerra; per
la precisione il nostro paese iniziò la belligeranza il 24 maggio 1915. Per
commemorare questo evento ho scelto alcune poesie scritte durate quel
conflitto; la prima è stata Grodek, del poeta
austriaco Georg Trakl; oggi, invece, propongo una
lirica di Clemente Rebora, che sperimentò l'orrore di quella guerra sulla
propria pelle, atteso che lo scoppio di una granata di grosso calibro
compromise gravemente il suo stato mentale, tanto che riporterà una pesante e
inguaribile infermità mentale.
I toni sono drammatici, gli accenni
lugubri, l'orrore ridonda, in una seye tuttavia d'amore,
sollievo e rimedio di tanta crudeltà.
Voce
di vedetta morta
di Clemente Rebora
C'è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell'aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni,
tu, uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l'uomo
e la vita s'intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla del mondo
redimerà ciò che è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t'ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.