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  Scritti di altri autori  »  I maestri della poesia  »  Acqua alpina, di Antonia Pozzi 19/02/2018
 

Si può essere così sensibili che, nel vedere che il mondo in cui si vive va verso la rovina, si arriva al punto di non più sopportare lo sfacelo e si decide di togliersi la vita? Può succedere ed è quello che è accaduto il 3 dicembre 1938 ad Antonia Pozzi in preda una disperazione che definì nel biglietto d’addio ai genitori “mortale”. Considerato che, soprattutto all’epoca, il suicidio era considerato scandaloso, la famiglia riuscì a far passare l’improvvisa scomparsa come dovuta a una polmonite fulminante. Non solo, e questo dimostra chiaramente una mentalità arcaica, il suo testamento fu distrutto dal padre che, inoltre, provvide a modificare le sue poesie, alla data dell’evento ancora inedite. Quindi quelle che abbiamo occasione di leggere possono non corrispondere a ciò che Antonia scrisse, né ci è dato di sapere quali siano state le modifiche apportate. E pur con questa limitazione continuano a essere belle, sì che l’impressione è che il genitore abbia lasciato intonse quelle scritte in epoche migliori, intervenendo chirurgicamente solo su quelle dell’ultimo periodo. In ogni caso Antonia Pozzi, che all’epoca della morte aveva ventisei anni, era una poetessa di razza, intendendo indicare con questo termine un autore capace, pur nell’ambito di una corrente letteraria, di avere delle sue peculiarità, con parole asciutte, versi concisi, tutta intenta a prendersi carico del dolore intimo che deriva da quello del mondo per trasfigurarlo nell’arte. Non è da pensare però che le poesie di Antonia Pozzi siano un graffio lacerante dell’animo, un pianto intenso da sfogo liberatorio, perché ci sono anche versi che riflettono, in tempi che furono senz’altro migliori, la gioia di vivere come nella lirica che segue.





Acqua alpina

di Antonia Pozzi


Gioia di cantare come te, torrente;
gioia di ridere
sentendo nella bocca i denti
bianchi come il tuo greto;
gioia d’essere nata
soltanto in un mattino di sole
tra le viole
di un pascolo;
d’aver scordato la notte
ed il morso dei ghiacci.


 
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