Non
è solo una questione di gusti quando un’opera in
rilettura suscita ancora una grande emozione, ma è la prova
tangibile che lì c’è qualcosa che appassiona, che
non finisce di stupire, che incoraggia a soffermarsi e a riflettere.
Quanto é varia la vita e pur nella sua brevità ne siamo
i protagonisti, nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva
sorte; sappiamo di non essere eterni, ma proprio per questo è
desiderio di lasciare una traccia di noi. Le epigrafi sulle lapidi
sono spesso scontate e quasi più nessuno le legge; due righe,
invece, che dicano ciò che siamo stati, in un libro scritto da
mani sapienti forse riescono a vincere il vento del tempo, forse
consegnano ai posteri ciò che fu la nostra vita. L’Antologia
di Spoon River, con le sue epigrafi, è riuscita a portare fino
a noi i suoi defunti, già da un secolo e non è quindi
poco, e forse, con un po’ di fortuna e se le genti non
dimenticheranno nel tempo a venire la bellezza della poesia,
l’eternità potrebbe non essere un sogno.
Non
avevo genio
di
Edgar Lee Masters
I
miei genitori credevano che sarei stato
grande
come Edison o più grande:
perché
da bambino costruivo dei palloni
e
splendidi aquiloni e giocattoli con gli orologi
e
piccole macchine con rotaie per andarci sopra
e
telefoni fatti di filo e scatole di latta.
Suonavo
la cornetta e dipingevo quadri,
modellavo
in argilla e feci la parte
del
cattivo nell'Octoroon,
Ma
poi a ventun'anni mi sposai
e
dovevo vivere, e così per vivere
imparai
il mestiere di fare gli orologi
e
tenevo la gioielleria sulla piazza,
pensando,
pensando, pensando, pensando,
non
agli affari, ma alla macchina
e
ai calcoli per poterla costruire.
E
tutta Spoon River osservava e attendeva
di
vederla funzionare, ma mai funzionò.
E
qualche anima gentile pensava che il mio genio
fosse
in qualche modo intralciato dal negozio.
Non
era vero. La verità era questa:
non
avevo genio.
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