Intervista di Renzo Montagnoli a Milvia Comastri, autrice della
raccolta di racconti Colazione con i Modena City Ramblers, edito
da Historica
Sono passati sette anni dall'uscita di Donne, ricette, ritorni e abbandoni, un'altra
raccolta di racconti edita da Pendragon,
e che io ho avuto occasione di leggere nella primavera del 2006, formulando un
giudizio positivo, estrinsecato nella recensione che è possibile leggere qui. In quella circostanza ebbi a evidenziare che si trattava
di vicende spesso semplici, narrate con garbata partecipazione, una
caratteristica dell'autrice che è possibile ritrovare anche in questo nuovo
libro. Insomma, non c'è bisogno di storie astruse, spesso tirate per i capelli,
per rendere gradevole e avvincente la lettura, perché quel che più conta è una
freschezza di stile che mai appesantisce, riuscendo anche a colpire con
immediatezza. Là mi aveva impressionato in particolar modo Il compleanno di Amalia Gargiulo; qua,
invece, è un racconto brevissimo che mi è rimasto dentro nonostante il titolo
non proprio italiano: I'm in the mood for love. Belle anche
queste nuove prose, ma mi chiedo, o meglio ti chiedo:
perché non scrivere un romanzo, magari prendendo spunto da una di queste
storie?
Già… sette anni. Un lungo intervallo di tempo dalla prima pubblicazione. E dire che di
cose, nel cassetto, ne ho. Molti racconti, ma non solo. Ma
rimangono lì, in attesa. Per ora, almeno.
Racconto storie semplici, dici.
Credo che tu abbia ragione: spunti di narrazione li colgo spesso da frammenti
di discorsi ascoltati sull'autobus, dall'espressione che mi pare di leggere in una persona
incontrata per caso, da spizzichi di conversazioni al cellulare, su un treno. Attimi di vita di gente comune, di uomini e donne come me, insomma.
E dopo, parte l'immaginazione.
Credo anche che il racconto, proprio
per la sua forma breve, non possa addentrarsi in storie troppo complesse: una
storia complessa, mi vien da dire, si troverebbe a disagio, in un racconto, come una balena
stretta fra le rive di un fiume. Ma,
forse, è questione di capacità, e un bravo… allevatore di balene,
non avrebbe problemi a far vivere
felicemente il suo cetaceo anche in un piccolo fiume. Non so, può essere che
sia io, a non saper racchiudere una storia complessa in un racconto.
Chissà perché proprio quel brevissimo I'm in
the mood for love, ti è rimasto in testa? Noto,
nonostante il tuo apprezzamento per il testo, un lieve disappunto per la scelta
del titolo, che è in inglese: ed è il titolo, come sai, di una vecchia canzone.
Perché, ora te lo dico, fra le fonti di ispirazione
che ho precedentemente citato, ce n'è
anche un'altra, ed è la musica. Avrai notato che in più di un racconto vengono citati titoli o brani di testi di canzoni, e,
d'altra parte, il titolo stesso della raccolta propone il nome di un gruppo
musicale che, fra l'altro, è uno dei miei preferiti nel panorama musicale
italiano. Così, un giorno, ascoltando I'm in the mood for love, ho immaginato un ragazzo e una ragazza mentre
stavano ballando. Ecco tutto.
Ho scritto, prima, che ho molte cose,
rinchiuse in un cassetto. Molti racconti, è vero. Ma
anche un romanzo. E così rispondo alla tua domanda. Sì, il romanzo c'è. Incompleto,
per ora, e mi vergogno un po' per non averlo ancora finito, visto che l'ho
iniziato nel 2005. Però, dopo un lungo periodo di
stasi, ora, pian piano, sta andando avanti. Ha anche un titolo: Isole, si
chiama. E la storia, questa volta, non è semplice: è una saga famigliare, tre
generazioni di donne, ognuna con il proprio segreto, ognuna chiusa nel proprio
isolamento. Queste donne io le amo, anche se nessuna di loro mi assomiglia. O
forse, no, forse, qualcosa di me lo hanno tutte. Devo
proprio finirlo, questo romanzo.
Non è solo questione d'ispirazione, ma
di trovare il giusto tempo per mettere nero su bianco quello che aleggia nella
mente. Ti capisco, perché capita anche a me, che in questo periodo ho tante
idee, ma riesco a concretizzare ben poco. Quando parlo
di storie semplici non intendo dire che possano
apparire banali; al riguardo di banalità ce n'è anche troppa in giro e ad opera
anche di autori di una certa caratura. Osservare la vita, le persone aiuta a mettere a fuoco atteggiamenti, anche comuni, ma che
assumono di volta in volta le caratteristiche di ogni individuo e per questo mi
piacciono le tue storie, così normali e al tempo stesso così originali, e poi
il tutto sta nel come vengono raccontate, nei punti che si intendono
evidenziare e in quelli che si vogliono sfumare. E' una questione di equilibri
e nel libro ci sono.
Ricorrono alcuni sfondi fondamentali,
quali la musica e anche il mare, e questi sono peculiari dell'autrice.
L'inserimento di alcuni versi di canzoni, secondo me, non ha solo la funzione
di un motivo di supporto al discorso, ma credo che il
ricordo della relativa musica sia un valido aiuto nello svolgimento del tema,
insomma una fonte, mediata, d'ispirazione. E' così?
Lo so che con “semplice”, non intendi
banale. Una delle mie paure, quando scrivo, è proprio
di scivolare nella banalità (e anche di essere patetica).
Sono contenta, poi, che tu
trovi equilibrata la struttura dei miei racconti. Evidenziare e sfumare non è facile, e si
rischia, se non si usano le giuste dosi, di rendere incomprensibile al lettore
la narrazione (come accade per una ricetta, la giusta dose dei componenti è
indispensabile). E anche non raggiungere un giusto equilibrio è una delle mie
paure, quando scrivo (e anche quando cucino…)
Hai perfettamente ragione quando dici che la
musica, nei miei racconti, non è un supporto alla scena. Non è, infatti, una semplice colonna
sonora della storia. Direi che, quasi sempre, è il
contrario. La musica, che amo in quasi tutte le sue espressioni, mi
evoca immagini, ricordi personali, emozioni. Certa musica, certe canzoni, mi rendono, come dire… creativa. E così, come
è accaduto con I'm in the mood for love, è
dalla musica che nasce il racconto. Anche se poi, il racconto, non ha niente a
che fare con il testo della canzone.
Guarda, io non potrei stare senza
leggere, leggo libri da quando avevo sei anni, e da allora non è mai praticamente trascorso un solo giorno senza che abbia letto almeno qualche pagina di un
libro. Però, sai, se dovessi scegliere fra non poter
più leggere, o non poter più ascoltare musica… mah, non sarebbe una scelta
facile. Sarebbe difficilissima, in verità. Ma spero
proprio di non dovermi mai trovare davanti a una simile scelta.
Un altro sfondo è costituito dal mare,
che probabilmente è visto come infinito spazio di libertà. Lo è per Antonio e
lo è per Davide, protagonista di Libri
sull'acqua, il racconto più lungo della raccolta. Ma
sarebbe troppo semplice definirlo così e allora ti chiedo che cos'è per te il
mare?
“Il mare, è la voce del mio cuore…”
cantava, in un vecchio Festival di San Remo, il mio concittadino Giorgio Consolini, recentemente scomparso. Non so se davvero il
mare sia la voce del mio cuore. Il mio cuore ha molteplici voci, vibra per
diversi elementi legati alla natura. Ma, in due
cittadine di mare, ho trascorso più della metà della mia vita: a Fano, nella
primissima infanzia, e a Igea Marina, per trentaquattro anni della mia vita da
adulta. “E qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure…” (altra
citazione canora, da
me molto più amata della precedente) del tempo. Rimane, come tu dici, l'idea di infinito spazio di libertà, rimane l'odore, rimangono i
colori che mutano in sintonia con il cambiamento del colore del cielo. Per anni
ho pensato che mi sarebbe piaciuto vivere su una barca (“e navigando con le vele tese, io sempre cercherò il mio orizzonte”:
autocitazione, questa). Oggi non so. Oggi, che ho ripreso a vivere in città, ho
scoperto come può essere pacificatore e terapeutico
sedersi sulla riva di un fiume, o camminare in un bosco. Forse, oggi, il mare,
è qualcosa di troppo immenso, per me.
Sì, forse spazi più raccolti, quando
siano pressoché incontaminati, hanno il pregio di isolare dal mondo e di
nutrire l'anima, in una sorta di simbiosi con la natura che ci circonda e di
cui – non dimentichiamolo – siamo parte spesso prepotente e irrispettosa.
Ho notato una
frequente tematica relativa a donne vessate, e nella migliore delle
ipotesi trascurate dagli uomini, donne che poi riescono a dare una svolta alla
loro vita ribellandosi e troncando un rapporto turbolento, oppure asfittico.
Non è per difendere la mia categoria, ma mi sembra che non siano infrequenti i
casi contrari, cioè di uomini tormentati dalle compagne.
Mi piacerebbe che una volta tanto ci
fosse un racconto in tal senso, se non altro - per dirla con una locuzione
latina oggi tanto di moda – per par
condicio. Non trovi che in questo XXI secolo, pur
in presenza di retaggi maschilisti del precedente, ci possano essere situazioni
come quelle da me sopra auspicate? E in ogni caso, perché la vittima dovrebbe
sempre essere solo la donna?
Domanda interessante, che richiederebbe
una risposta molto lunga e articolata. Ma mi sforzerò
di stare in limiti accettabili.
Solitamente, giudico le persone non
tanto per il genere sessuale di appartenenza, ma,
appunto, come persone. Non mi piacciono troppo le contrapposizioni, gli
schieramenti che mettono da una parte tutti i buoni e dall'altra
tutti i cattivi. Ma una considerazione la devo fare: se è vero che ci
sono uomini vessati dalle donne, la loro percentuale è di
gran lunga inferiore a quella delle donne tormentate dagli uomini. Non
lo dice solo la mia esperienza basata su racconti di altre donne, ma lo dicono
le statistiche, quelle che riguardano il femminicidio,
per esempio. Penso che tu sappia che, dall'inizio dell'anno, le vittime
accertate di questo crimine
orrendo, sono 56. Donne uccise da uomini, nella
maggior parte dai loro compagni o ex compagni.
I retaggi maschilisti dello scorso
secolo esistono ancora: “o mia, o di nessun altro” è
ancora, nel XXI secolo, una folle concezione su cui molti, troppi uomini,
basano il rapporto di coppia. Poi ci sono le donne vittime di violenze
sessuali… E,
drammi meno cruenti, ma sempre drammi, ci sono le donne che più facilmente
degli uomini, in questo periodo di crisi, perdono il lavoro.
E all'elenco di vessazioni nei confronti delle donne, se ne potrebbero
aggiungere molte altre.
Per fortuna esistono, e spero non siano
pochi, anche uomini splendidi, che le donne le rispettano e non le valutano
come oggetto di appartenenza.
E, certo, esistono donne (la minoranza,
io credo) che gli uomini li tormentano e li vessano. Raramente, però, li
uccidono. E, forse, un giorno scriverò un racconto
proprio su di loro. Non tanto per par condicio, ma per narrare una realtà
diversa.
Sì, effettivamente è raro il caso di
donne che uccidono uomini, mentre il contrario è imparagonabile. Io sono sempre
dell'idea che queste prevaricazioni degli uomini sulle donne, frutto di una
mentalità distorta, abbiano origine nella famiglia e in particolare nel ruolo
della madre che, spesso inconsciamente, tende a privilegiare
il ruolo del maschio.
Altro argomento che ti è caro è quello
letterario e un classico esempio è portato da uno dei racconti, Libri sull'acqua, in cui il
protagonista, che fa tanto tenerezza, è un uomo. Potevi mettere una donna, ma
hai messo un uomo, forse uno di quei maschi splendidi
di cui accenni nella precedente risposta.
Al di là di festival letterari e di fiere del
libro, resta un fatto incontrovertibile: si vendono sempre meno libri. E
imputarne la causa alla crisi economica è secondo me molto riduttivo. I motivi
di questo calo, a mio avviso, vanno ricondotti alle famiglie, che sempre meno
inculcano ai figli il piacere e l'utilità della lettura, alla scuola che
presenta gravi lacune, accentuate dalle recenti riforme, e anche a una
progressiva disaffezione, soprattutto dei giovani, per la cultura (è di questi
giorni la notizia che è in diminuzione il numero dei laureati).
Qual'é la tua opinione al riguardo?
Mi fa piacere che tu citi Davide, il
libraio protagonista di Libri sull'acqua, perché è un personaggio che amo
particolarmente.
Così come la famiglia è fondamentale nell'educazione sentimentale e civile di
un figlio (ed è purtroppo vero che alcune madri, con il loro privilegiare
il figlio maschio producono danni ingentissimi, ma anche i padri, però, non
sono da meno, privilegiando le figlie femmine), così ha un ruolo molto
rilevante nell'inculcare ai propri figli l'amore per la lettura. Io mi ritengo
molto fortunata: se la lettura è diventata, per me,
una sorta di fame, e se, anche attraverso la lettura, ho cominciato a scrivere,
lo devo a mia madre, che, pur non avendo un alto titolo di studio, leggendomi
ad alta voce i suoi autori preferiti, regalandomi qualche giocattolo, sì, ma
anche tanti libri, mi ha fatto
innamorare del mondo della letteratura (ma anche della musica, e del teatro..).
Però è anche vero che non tutte le
famiglie sono in grado di trasmettere questo amore, e
non si può colpevolizzarle, per questo. Il discorso qui, si farebbe molto
lungo, dovrei parlare del rapporto TV/famiglie, dei tempi ristretti che i
membri della famiglia hanno a disposizione per comunicare fra loro, e altro
ancora. Ma non è questo il luogo.
Pur non sottovalutando il ruolo della
famiglia, credo che debba essere principalmente la scuola a far… come dire… da
Cupido. Non è che a scuola non si legga e non si parli
di libri. Ma come lo si fa? Nella maggior parte dei
casi lo si fa male, l'approccio è solo accademico e
noioso, gli autori degli ultimi cinquant'anni sono pressoché ignorati. Tanto è
vero che i libri fatti leggere dagli insegnanti vengono
odiati dai ragazzi, che poi, magari da adulti, se capita loro di riprenderli in
mano, ne scoprono stupiti la bellezza.
Si possono forse condannare, questi ragazzi?
Non credo proprio. Non puoi far leggere un libro a un ragazzino e poi
obbligarlo a scriverne il riassunto, o un piccolo saggio. Che poi si sa come
vanno a finire queste cose: una volta lo studente copiava da una
enciclopedia cartacea, ora copia e incolla da Wikipedia…
Meglio sarebbe, secondo me, leggere ad alta voce il libro in classe e poi
aprire un dibattito cui, collettivamente, possano partecipare tutti gli
allievi, ma senza obbligo. Leggere insieme un libro avvincente, e, perché no,
interrompere la lettura in classe in un punto particolarmente interessante,
potrebbe indurre i ragazzi a continuare la lettura per conto loro, non più per
dovere, ma per piacere. E potrebbero scoprire quanto è bello leggere. Mi sto
dilungando troppo, ma l'argomento è veramente ricco di suggestioni.
Forse, comunque, la crisi un poco
c'entra, con il calo di vendita della librerie… I libri costano davvero tanto.
Per il calo del numero dei laureati, che dire?
O un ragazzo si laurea per puro amore del sapere (ammesso che le Università
siano culle del sapere), oppure che spinta può avere a
conseguire la sua laurea? Quella di andare a lavorare in un call
center? Son tempi duri, durissimi. E per i giovani,
soprattutto. Che non sono così superficiali e… fannulloni come li si descrive. La maggior parte ha perduto i propri sogni,
e di questo siamo tutti responsabili.
Io non me la sento di dare la colpa all'attuale generazione; la vita è un
susseguirsi di eventi che finiscono inevitabilmente per ricollegarsi. Noi siamo
i figli di chi, terminata la guerra, si è rimboccato
le maniche e, fra mille difficoltà, è riuscito a portarci un po' di benessere,
sul quale ci siamo adagiati, e, senza che portassimo ai nostri figli
insegnamenti negativi, non siamo riusciti a far comprendere loro che questa
seppur modesta agiatezza era il frutto di sacrifici e che nella vita il denaro
è sì importante, ma non è il fine della stessa. La scuola ha una responsabilità
relativa, perché gli insegnati attuali sono cresciuti in quell'assenza di
valori che impedisce di far comprendere agli allievi che la cultura è
soprattutto libertà. Come vedi la situazione attuale trova spiegazioni nel
passato, come sempre.
Non è un caso, quindi, se fra i
racconti c'è E una sera se n'è andata, perché di
personaggi così opachi e vegetali se ne incontrano sempre di più. Gli ideali
sono spariti e senza questi non è possibile vivere, se
non alla giornata.
Ma veniamo alle domande dell'intervista.
Mi sono chiesto - e penso che la stessa
domanda potresti rivolgerla a me – perché mi abbia
così colpito un racconto dal titolo in inglese. La lingua non c'entra niente,
anzi nel caso specifico è necessaria. Ho pensato a lungo e ho concluso che nella sua disarmante semplicità questo racconto
descrive in modo ineccepibile un breve incontro, una storia del cui esito i
protagonisti sono consapevoli fin dall'inizio; eppure ci credono, si illudono,
intendono dare un significato al loro rapporto che va oltre l'aspetto
affettivo, vogliono creare una parentesi di umanità negli orrori di una guerra,
desiderano fortemente che nasca una speranza d'avvenire. Accettano l'effimero
tempo di questa unione come ineluttabile, ma il loro è
un carpe diem
che li fa tornare alla vita.
Ecco, non so se la mia interpretazione
sia esatta ed è appunto questa la domanda: ho colto nel segno?
Ma neppure io mi sento di dar la colpa alle nuove generazioni! Ci mancherebbe… Forse
qualcosa nella mia precedente risposta ti aveva fatto pensare che io le
condannassi? Se è così, significa solo che non sono stata chiara.
Sul tuo drastico
giudizio sulla scuola e sugli insegnanti non sono completamente d'accordo. Non
tutti gli insegnanti sono cresciuti con un'educazione priva di valori: credo
che molti di loro, nonostante tutto, facciano il possibile per trasmettere agli
allievi le regole basilari del vivere civile. Purtroppo non è facile, troppi
ostacoli da superare, sul loro percorso.
Ma torniamo ai racconti. Trovo singolare la tua analisi di “E una sera
se n'è andata”. Non credevo di aver raccontato una storia che fosse, in un
certo senso, uno specchio dei tempi: così, come l'ho visto io, è un rapporto
fra coniugi come poteva esistere anche cento anni fa, con la sola differenza
che, cento, ma anche trenta, quarant'anni fa la donna sarebbe
rimasta accanto a quel marito così poco sensibile alle sue esigenze. Ma mi piace la tua interpretazione, anche se è diversa dalla
mia, perché amo pensare che, una volta che il mio libro passa nelle mani del
lettore, non mi appartenga più, e ognuno ci possa vedere, dentro, quello che
più gli aggrada.
Siamo invece in sintonia
sull'interpretazione dell'altro racconto, “I'm in the mood for
love”. Hai colto nel segno, parola per parola. Non ho
vissuto quegli anni (non son mica così vecchia…), però, forse attraverso
letture e film ambientati in quegli anni, credo di averne introiettato
l'atmosfera. Credo, almeno.
Non ti sei spiegata male,
il mio è un giudizio in sintonia con il tuo sulle assenze di colpa per
l'attuale generazione. Per quanto riguarda la scuola gli
insegnanti di cui accenni ci sono indubbiamente, ma non sono la norma, bensì
quasi delle mosche bianche. Per rendere partecipi gli allievi occorre passione,
capacità di stimolare, di proporre, coinvolgendo, la materia, e ciò spesso
manca. In relazione alla mia interpretazione di E una sera se n'è andata non dobbiamo
dimenticare che siamo nel XXI secolo e che molte cose, alcune in bene, altre in
male, sono cambiate. C'è stato un progressivo svilimento del concetto di
famiglia, circostanza che, dopo una primavera al riguardo avutasi nel
dopoguerra, incide sul rapporto di coppia e che tende a chiudere, soprattutto
dalla parte maschile, un dialogo affettivo relegando la convivenza a quella ripetitività alienante di cui proprio spesso la donna è più
vittima.
Io ho espresso le mie preferenze per i
racconti, ma vorrei chiedere a te che li hai scritti quale é quello a cui sei più affezionata e per quale motivo?
Prima di rispondere alla tua domanda,
vorrei soffermarmi brevemente sul concetto di famiglia. Non sono sicura che ci sia stato uno
svilimento di questo concetto. Forse c'è stata una trasformazione, un
ampliamento: la famiglia, nel senso di coppia, oggi, non deve essere
necessariamente sancita da certificati o da cerimonie siano esse civili o
religiose, né deve essere, necessariamente, composta da
un uomo e da una donna. Lo svilimento, forse, è più dei sentimenti. Ma non ne sono molto sicura. Le coppie “e vissero per sempre
felici e contenti” erano rare anche un tempo. Ma una volta non c'era il
divorzio, e quel
“per sempre” era, spesso, una condanna.
Come ti ho già detto,
un personaggio che amo è Davide, il protagonista di “Libri sull'acqua”. Ma il mio racconto
preferito è “Angelo dei bambini”. Anche
se non amo scrivere storie autobiografiche, in molti miei racconti ci sono
frammenti di esperienze personali. In “Angelo dei bambini” di questi frammenti
ce ne sono diversi. Anni fa assistetti per una settimana una mia carissima
amica ricoverata all'Istituto dei tumori di Milano, nel reparto riservato al
trapianto delle cellule staminali. Quel piccolo reparto si trovava proprio
accanto a pediatria. Il racconto è nato da quella esperienza
dolorosa: quel bimbo che cammina lungo il corridoio portandosi appresso il
trespolo della flebo l'ho conosciuto, e ho conosciuto la disperazione
aggressiva di sua madre, e i parenti della ragazzina che veniva dal sud, e il
padre smarrito, nella sua tenerezza verso il figlioletto neonato. E di angeli,
sì, di angeli dei bambini, ce n'erano tanti, fra il
personale paramedico. Ho sentito
l'esigenza di raccontare di loro, forse per stemperare il dolore e il senso di impotenza che ho provato in quei lontani giorni milanesi.
La famiglia è l'unione di più persone
sostenuta dal reciproco affetto, e non importa che esista un vincolo
matrimoniale, bensì quel che conta è che i suoi componenti
si sentano parte attiva, non solo rispettandosi reciprocamente, ma anche
donandosi l'un l'altro. Non conosco altri significati, se non quelli giuridici,
che ovviamente prescindono dal legame affettivo. Anche un tempo di coppie
felici ce n'erano poche, ma la differenza sostanziale è che ora la maggior
parte dei componenti della famiglia, a partire dal marito
e dalla moglie, sono già infelici per conto loro; insoddisfatti uniscono le
loro piccole tragedie personali e frequentemente quel sottile filo invisibile
che li legava finisce con lo spezzarsi. E in questi casi o si procede come
estranei sotto lo stesso tetto, o ci si lascia; esiste un'incomunicabilità che
il mettersi insieme non può sanare e quindi l'istituto familiare si svilisce in
una sorta di banco di prova che solo raramente dà buoni frutti.
Penso che si possa passare all'ultima
domanda, quella che è quasi d'obbligo: e ora che farai? Che progetti,
ovviamente letterari, sono in corso, oppure solo in nuce?
Senza dubbio questi sono anni di
depressione e di infelicità. Ma, anche se io stessa ho
ricevuto schiaffi, o meglio pugni, dalla vita, continuo
ad avere speranza, continuo a credere nella, a volte… insostenibile, bellezza
della vita, della natura, e anche nell'altrettanto insostenibile, a volte,
gioia che l'amore ti procura.
Di un mio progetto letterario ho già
detto nella prima risposta. Quel romanzo, “Isole”, in attesa di essere concluso. Celeste, Assunta, Nadia e Mira, le quattro
protagoniste, ogni tanto mi si presentano davanti, si piazzano le mani sui
fianchi e: “Allora?” mi chiedono, “Dobbiamo aspettare ancora molto?”. Un po' di pazienza, care amiche… L'attesa
sarà breve, care le mie donne. Ve lo… quasi prometto.
E poi, sorpresa sorpresa, ho
già una mezza ideuzza per un sequel. Si sa mai…
Ho poi molti racconti, alcuni già
pronti per una
raccolta, altri legati da un filo, direi, noir, che, forse, potrebbero
interessare qualche editore. E poi… E poi chissà. Che la vita è sempre piena di
sorprese.
Grazie, Renzo, per il tempo che mi hai
dedicato e per le tue intelligenti domande, che mi hanno anche portato a fare
riflessioni su di me e sulla mia scrittura.
Sono io a ringraziare te per la
piacevole conversazione e, nell'accomiatarmi, ti auguro che questo libro ti dia
le soddisfazioni che senz'altro meriti.
Colazione con i Modena City Ramblers
di Milvia Comastri
Historica Edizioni
www.historicaedizioni.com
Narrativa raccolta di
racconti
Pagg. 102
ISBN 9788896656433
Prezzo € 12,00