Intervista di Renzo Montagnoli a Corrado Guzzon, autore della silloge Un Gioco d'Azzardo, edita dal Foglio Letterario
E tre quindi. Dopo Dovrei
vivere in una vasca (Ed. Clandestine) e Un
deca sul bancone (Cicorivolta), ora hai scritto e
pubblicato Un gioco d'azzardo. Ce ne
vuoi parlare e anche spiegare il perché di questo titolo?
Ebbene, sono molto contento di dare vita a questa mia terza
silloge di poesie. Devi sapere che i miei primi due libri erano in gran parte
una raccolta di ciò che avevo scritto negli anni passati, mentre questo che
pubblico con Il Foglio contiene una produzione tutta nuova e attuale. Ecco
perché ne sono molto stimolato e orgoglioso. Il titolo Un Gioco d'Azzardo prende spunto innanzitutto da una omonima poesia presente nel libro: è una poesia che
parla d'amore, o, meglio, dell'amore,
visto un po' come un gioco d'azzardo. Ma l'azzardo, in questa raccolta, vuole
essere un po' un concetto trasversale. Lo troverai, leggendo, più o meno
agganciato sia ai temi della poesia che della vita. Una sorta di filo sottile
che li lega tutti e tre.
Il “mio” azzardo vuole essere letto come una sfida, come una prova
che è giusto tentare. Parlo del “gioco dei versi”, dell'amore come un lancio di
dadi in attesa del numero vincente, delle scelte esistenziali che a volte è opportuno
tentare, per dare maggiore luce ai propri giorni e per superare certe
monotonie.
E poi c'è il “gioco”: sì, perché nell'amore e nella vita non
bisogna prendersi troppo sul serio. Come ben ha sottolineato il prefatore del
libro nel suo eccellente intervento (a proposito, possiamo rivelare che sei
tu?), l'ironia e la sdrammatizzazione sono strumenti essenziali quando ci
accorgiamo che il tempo e il destino si prendono gioco di noi, come pedine di
una commedia di cui non conosciamo il testo e dove tutto sembra o è frutto del
caso.
Sì, Corrado, dici giusto
che è indispensabile nella vita una sorta di autoironia, per non cadere nel
perenne sconforto, e del resto questo metodo di salvezza era già stato ben
delineato, per non dire canonizzato, da Hermann Hesse in un suo celebre
romanzo, Il lupo della steppa. Arriviamo ora alla domanda: questo mettersi in
gioco è solo in funzione poetica, vale a dire di aspirazione letteraria, o
caratterizza da sempre la tua vita?
Ho sempre amato il gioco.
Mi è sempre piaciuto giocare e, nel farlo, mi sono sempre impegnato per
riuscire meglio che potevo. Sin da bambino. Il gioco per me è sacro: amo
rispettare le sue regole e cercare il massimo del divertimento e del risultato
possibili. Sì, perché un gioco senza regole non è un gioco: è solo un caos nel
quale non mi trovo a mio agio.
Sul “mettersi in gioco”
invece è diverso. Devo ammettere che, di fatto, chi scrive poesie e,
soprattutto, le pubblica si mette a nudo, offre sé e la sua anima in pasto ai
lettori.
Per quanto riguarda la
vita in genere, non sono mai stato – per carattere - un cieco coraggioso da “o
la va o la spacca”, tanto da buttarmi nella mischia per il solo scopo di
provare qualcosa a me stesso o a qualcuno.
Soltanto di recente, alcune circostanze mi hanno indotto a
rischiare alcune scelte, alcuni cambiamenti. E' stato una specie di “azzardo”,
appunto, che ho vissuto con la giusta adrenalina e la necessaria
preoccupazione. Ma ho scoperto che a volte funziona: occorre tentare e agire,
non fermarsi, valutare l'obiettivo e, perché no?,
lanciarsi nella sua direzione. Se lo fai con il giusto approccio, ti sentirai
più forte in caso di vittoria, mentre un eventuale fallimento sarà un inciampo
che potrai presto superare.
E' per tale ragione che,
parallelamente a questo mio tempo, è nata la nuova raccolta di cui parliamo: Un Gioco d'Azzardo.
Indubbiamente tu devi molto in campo poetico a Charles Bukowski,
ma com'è nata la passione per questo autore di madre tedesca e di padre
polacco-americano (un bel mix), il cui nome è stato spesso associato alla beat
generation, movimento a cui per periodo e località di certo non hai avuto modo
di partecipare?
Hai, diciamo, una ventina
di pagine a disposizione affinché io inizi
soltanto a parlare di Charles Bukowski? Immaginando la tua risposta negativa,
allora cercherò di essere sintetico e essenziale. E' vero: a Bukowski devo
moltissimo, dall'amore smisurato per la sua intera opera letteraria alla
passione che mi ha trasmesso per la poesia. Il suo primo libro che lessi a diciott'anni fu “Storie di Ordinaria follia”, come per
molti, credo. Il fatto è che da allora non feci altro che divorare ogni suo
scritto, narrativa o versi. Cominciai a collezionare i suoi libri, arrivando
alle edizioni americane, alle riviste underground, a tutto ciò che negli States
circolava di o su Bukowski. Ho libri autografati e, come la copertina di Un Gioco d'Azzardo dimostra, perfino
una cartolina che lui stesso mi mandò pochi mesi prima di morire, facendomi
sobbalzare il cuore a rischio d'infarto…
Amo tantissimo le sue
poesie. Versi chiari, lineari, asciutti, scavati nella pagina. Emozionanti e
ironici, divertiti e riflessivi. Il tutto senza ombra di supponenza o di
elitaria circostanza.
Non sono d'accordo
nell'associare Bukowski alla Beat Generation, non c'entra nulla con quel
movimento letterario. Li accomuna soltanto il periodo storico in cui entrambi
hanno vissuto e prodotto la propria arte. Bukowski era un solitario e non amava
particolarmente fare “gruppo” con altri poeti: con Ginsberg,
Corso, Ferlinghetti e altri si conoscevano ma non
condivideva il loro movimento. Forse un'eccezione fu solo Ferlinghetti,
per la cui casa editrice (City Lights Books) pubblicò qualche suo libro.
Ancora oggi leggo
Bukowski. Non sai, dal 1994 (anno in cui morì), quante raccolte di poesie
postume sono state pubblicate: quasi una all'anno. Per la gioia mia e di tutti
i suoi amati lettori.
Ancora una domanda su Bukowski prima di tornare alla tua silloge.
Vedi qualcuno, attualmente, che nella scia dell'autore americano rinnovi il suo
stile o addirittura superi il maestro?
Credo che Bukowski sia
uno dei poeti e degli scrittori che ha avuto il maggior numero di “seguaci” in
America dagli anni settanta/ottanta in poi: basta andare a recuperare riviste e
pubblicazioni di antologie di poeti americani che da allora hanno circolato
laggiù. Non so dire se, tra loro, c'è qualcuno che rinnovi adeguatamente il suo
stile, io – perlomeno - non l'ho notato. Ma sono convinto che sia molto
difficile ritrovare, oggi, un nuovo Bukowski, uno scrittore e un poeta di
grande personalità, storia e spessore. Uno dei grandi, senza dubbio,
del secolo appena trascorso.
Ho dato libero sfogo alla
tua passione per Bukowski, ma posso immaginare che ci siano altri poeti di
riferimento per te e, a parte Cesare Pavese, che mi hai indicato nel corso
dell'intervista relativa a Un deca sul bancone, quali sono e perché?
Nella mia libreria c'è
una piccola schiera di autori che mi hanno fatto sognare a lungo, viaggiando
tra le pagine a cavallo di imperdibili storie di vita, arrabbiandomi con loro,
godendo con loro, bevendo con loro, dividendoci perfino le donne o assaporando
l'ultima ciliegia posta in un daiquiri sapientemente preparato da baristi
esperti. Mi riferisco a Hemingway, John Fante, Hamsun,
Celine, Boris Vian, Dostojevskij,
Carver ecc. Non ci sono soltanto questi, naturalmente. Ma, diciamo, che le mie
letture sono nate con loro. E come puoi notare sono perlopiù “romanzieri” o
autori di narrativa. Oltre a Bukowski, il poeta che più mi ha influenzato è
Cesare Pavese come hai ben ricordato. La sua poesia “narrativa” è densa di
ritmo, musicalità, ricca di personaggi e racconti: la fotografia del mondo di
“Lavorare stanca” è da incorniciare, sotto questo punto di vista. I suoi versi
corrono veloci, ti prendono per mano e mentre ti insinui, ad esempio, nei “Pensieri di Deola”
o ti accompagni ai “Fumatori di carta”
o ancora ti soffermi nell'Incontro,
senti il senso della poesia che permea ogni verso, finché ogni quadro che si
compie all'ultima parola ti lascia l'incanto che attendevi: un respiro sospeso,
uno sguardo di malinconia, un pugno nello stomaco o una confusa dolcezza.
Queste sensazioni non le
ho trovate spesso in altri poeti, in maniera così massiccia, diretta e
costante. Ti racconto un aneddoto: anni fa ebbi l'occasione di frequentare
Fernanda Pivano (che tu conoscerai benissimo) e una sera, a cena in un
ristorante milanese, mi pose la stessa domanda che ora mi fai tu. Le dissi
queste identiche mie impressioni su Pavese e sulla
poesia: mi ascoltò con un'attenzione particolare e alla fine mi sorrise, con la
dolcezza che caratterizza il suo splendido viso e mi disse: “Che Dio ti
benedica, figliolo!”.
Lo sai? All'epoca,
parliamo di circa 15 anni fa, le feci leggere molte mie poesie. Le analizzò
tutte, verso dopo verso, con una calma e una professionalità uniche. Ricordo
fece una serie di “orecchie” alle pagine di alcune poesie, altre le spostò di
lato e altre ancora le lasciò nel mucchio.
Scoprii che le pagine con
le “orecchie” contenevano le poesie che lei riteneva pienamente riuscite (quasi
da “professionista”, disse). Le altre poste di lato avevano bisogno di ritocchi
e quelle nel mucchio invece non funzionavano per niente.
Molte di quelle con le
“orecchie” sono poi entrate nella mia prima raccolta “Dovrei vivere in una
vasca”.
Parliamo di poeti e di
poesie, ma che cos'è secondo te la poesia?
La poesia è una forma d'arte che mi offre la
possibilità di esprimere le mie emozioni, i miei pensieri, le mie sensazioni. Mi
consente di raccontarmi e di raccontare il metro quadro in cui vivo e di cui
sono testimone. Ho adottato anch'io la scelta per una poesia, diciamo,
narrativa, per il verso libero: ritengo offra più possibilità di coinvolgimento
e facile lettura. Mi piace leggere le poesie, mie o di altri, a “voce”, per
sentire il flusso delle parole, il ritmo, per verificarne i contenuti.
L'incanto (di cui parlavo prima quando mi riferivo a Pavese) o il
"successo" di una poesia possono derivarmi da diversi ingredienti. Spesso
anche non necessariamente tutti presenti al contempo. Più ce ne sono e più
l'effetto si crea, naturalmente. Ma una poesia è una poesia. Non sposo le
teorie sulla "santità" della poesia. Del tipo, intoccabile o
venerabile, se no non è degna...
Sono le parole scelte, ispirate e
scavate nel verso, sono le immagini evocate, l'armonia, le metafore impreviste
ma scioccanti, sono i contenuti in cui ti vedi, ti scopri e ti si mette a nudo,
sono l'emozione del primo o dell'ultimo verso, il sorriso che ti concilia, a
volte la risata, il respiro che si ferma un istante insieme al pensiero in
quella riga, in quella parola, in quel preciso affresco che si compone davanti
ai tuoi occhi. E, ripeto, può essere uno o più di questi elementi a far sì che
un componimento produca un effetto positivo. Cerco questo, quando scrivo così
come quando leggo poesie altrui.
Secondo te, dove sta
andando oggi la poesia? Mi spiego meglio: l'ermetismo come corrente ha esaurito
il suo corso, senza tuttavia generare nuove idee che convogliassero in una
certa direzione le scelte poetiche. Oggi come oggi rilevo solo dei tentativi,
individuali, volti a mescolare l'ermetismo con un po' di classicismo. Tu che ne
pensi?
Un esperto e profondo
conoscitore dell'attuale panorama letterario come te, Renzo, può senz'altro
avere punti di visuale migliori del mio per capire come si sta muovendo la
produzione poetica. Ormai, oltre alle librerie e alle fiere del libro dislocate
per tutta Italia, è prepotentemente entrato anche Internet col suo infinito
mondo. Per me è impossibile trovare in questo ampio panorama una chiara
tendenza verso uno stile preciso o un modo condiviso di intendere o scrivere
poesia. C'è tutto e il contrario di tutto. Tranne Alda Merini, col suo lirismo
e la sua vita intensa, non sono rimasto colpito da altri poeti. Parlare oggi di
“ermetismo”, dopo che è trascorso quasi un secolo dalla sua nascita, mi lascia
perplesso e mi infonde una profonda tristezza. Come ho ricordato prima, la
poesia che amo segue una direzione opposta a quella ermetica. Abbiamo di fronte
una società e un'esistenza che nulla ha a che fare con quella che ospitò gli
Ermetici degli anni 30 o 40. Il classicismo è ancora più distante. Con questo
non voglio assolutamente togliere valore a grandi poeti del passato, anzi.
Hanno saputo innovare e indicare strade nuove rispetto all'epoca in cui hanno
vissuto. Hanno trattato il tema della solitudine dell'uomo, argomento che
certamente è di piena attualità anche oggi. Potremmo forse arricciare il naso
davanti a Montale, Ungaretti o altri poeti francesi di allora?
La scelta espressiva
ermetica, invece, pur legata a temi ancora validi, non la comprendo e non
riesco a collocarla efficacemente oggi. Per questo, l'idea che un poeta si
metta a scrivere di soli stati d'animo in forma evocativa, chiusa, ermetica appunto o incomprensibile ai più, mi sembra
totalmente fuori tempo e fuori spazio. Se solo quel poeta si alzasse dalla sua
poltrona di velluto e scendesse per le strade, girasse tra il cemento della
città, mettesse i piedi dentro un bar, scrutasse il volto di una commessa a fine giornata, contasse le auto in fila di operai,
rappresentanti, impiegati, madri e padri che tornano a casa la sera, ascoltasse
le voci del palazzo in cui vive e cercasse di capire lo sguardo di un uomo o di
una donna che ha al fianco o di un figlio che digita palmari o tastiere
computerizzate a lui ignote, forse intuirebbe che la sua espressività poetica
dovrebbe seguire altre vie per essere efficace. Per sé e per gli altri.
Capirebbe che la magia semplice delle parole nel gioco affascinante dei versi
sa colpire comunque l'obiettivo, senza cadere nella trappola elitaria di pochi
intellettuali.
Una volta si diceva che
non si poteva vivere di sola poesia e anche oggi è così. Il mercato è quello
che è e le vendite di libri di questo genere sono risibili rispetto a quelle
della narrativa. Fra l'altro, come ho potuto constatare andando per fiere, è
raro che i poeti comprino opere di altri autori, una cosa di cui ancora non mi
capacito. Resta comunque il fatto che la poesia è negletta rispetto alla
narrativa. Secondo te, per quali motivi?
Quello che dici è vero. Le ragioni per cui il mercato e la
conoscenza della poesia sono quelle che tu descrivi credo dipenda in gran parte
da quanto ho raccontato e detto in precedenza. Impostando la valutazione su due
fattori essenziali, ritengo, da un lato, che l'espressività dei poeti oggi non
sia consona ai tempi che stiamo vivendo e alle peculiarità della società che ci
circonda. Il persistente aggancio a modelli o correnti letterarie passate, in
qualche modo riprese e mal riprodotte, non attira e non colpisce l'attenzione e
l'emozionalità dei lettori. Alle fiere io stesso curioso tra i banchi degli
editori, anche quelli più piccoli, sfoglio pagine e pagine di libri ma spesso
li lascio ricadere lì dove li avevo raccolti. Non trovo, se non ogni tanto,
versi che catturino il mio interesse. Tuttavia, frequentando anche forum
letterari su internet, ti assicuro che la voglia di buona poesia esiste e non
manca un interesse di fondo nei lettori.
Dall'altro lato, poi, il mercato editoriale non fa nulla
per incentivare, promuovere, pubblicizzare la poesia. Domanda e offerta sono
sempre concetti che dipendono l'uno dall'altro e non è vero e corretto
affermare apoditticamente che “la poesia non
interessa quanto la narrativa”. Se entri in libreria, troverai scaffali e
banconi che ti assaltano con romanzi di ogni tipo e di ogni provenienza: autori
spesso anche sconosciuti, stranieri, mentre in fondo, nell'ultima parete del
locale, rimane un piccolo scaffale con venti/trenta libri in fila (spesso in
basso) di poesia.
Altra nota particolare è la prevalenza di romanzi gialli o
thriller: mi sono spesso chiesto il perché di questo filone. I “miei” grandi
scrittori scrivevano della vita, dell'amore, della guerra, della morte: temi
assoluti e profondi. Ora, c'è questa ondata di storie in cui rintracciare un
assassino o il responsabile di qualche omicidio in serie.
Sai cosa disse Bukowski? “Che differenza c'è tra poesia e prosa? La poesia dice troppo in
pochissimo tempo, la prosa dice poco e ci mette un bel po'”.
Adesso sono curioso di sapere
i tuoi programmi, cioè se stai scrivendo un'altra silloge. Però, per rimanere
nella scia di Bukowski, ti chiedo anche se potremo
attenderci in futuro un Corrado Guzzon narratore. In
pratica le domande sono due, ma puoi benissimo cavartela con un'unica risposta.
Continuo a scrivere, questo sì. Dire che sto già preparando una nuova
raccolta è prematuro. Mantengo vivo questo “gioco”
espressivo finché mi va di mettere nero su bianco, in forma poetica, l'ormai
noto “metro quadro” in cui vivo e di cui cerco di essere testimone. Per quanto
riguarda la narrativa non la escludo assolutamente. E' un'esperienza che non ho
ancora voluto approfondire veramente, anche se alcuni
approcci confesso di averli già tentati. Mi affascina, non lo nego.
Occorre però impegnarsi in modo diverso e più specifico. Altri, prima di te, mi
hanno suggerito o chiesto questa prova. Un po' per via anche del mio stile
poetico che mi porta a volte a “raccontare” in versi storie o personaggi. Mi
prendo tempo, non ho fretta. Intanto, mi fa piacere averti coinvolto così
intensamente in questa bella intervista e nella lettura del mio nuovo libro di
poesie. Penso sia una buona raccolta. Un gioco d'azzardo ben riuscito. Tu che
ne pensi?
Se non mi fosse piaciuto, non ne avrei scritto la prefazione.
Abbiamo finito e ti saluto con l'augurio che Un Gioco d'Azzardo abbia il successo che si merita.
Un Gioco d'Azzardo
di Corrado Guzzon
Prefazione di Renzo Montagnoli
Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it
ilfoglio@infol.it
Poesia silloge
Collana Autori Contemporanei di Poesia
Pagg. 85
ISBN: 978 88 7606 213 1
Prezzo: € 10,00