Intervista
di Renzo Montagnoli ad Arturo Bernava, autore del
romanzo Il colore del caffè, edito da
Solfanelli.
Questo romanzo ha la struttura di un giallo, benché l'elemento di
tensione e di indagine costituisca più un pretesto e anche un filo conduttore
per costruirvi intorno tutta una serie di storie, solo in apparenza non
collegate, ma che danno vita a un grande affresco di un piccolo paese di
montagna in un lasso di tempo che va dagli anni '30 alla fine della seconda
guerra mondiale. Lei in quel periodo non c'era ancora e quindi, a parte notizie
che possono averle fornito anziani di sua conoscenza,
ha lavorato molto di fantasia. Perché scrivere di un'epoca così particolare, di
una comunità rinchiusa in se stessa in un'Italia che, almeno nel ventennio, era
altrettanto chiusa?
Il libro nasce fondamentalmente da un racconto, che aveva lo
stesso titolo “Il colore del caffè”. L'avevo scritto nel maggio del 2008 per
trattare l'ignominia delle leggi razziali, promulgate appunto nel 1938. Il
racconto uscì così bene che vinse alcuni concorsi per “inediti”; in uno di
questi una giuria popolare molto numerosa rimase addirittura entusiasta
dell'ambientazione e dei personaggi. Sono stati questi giurati, indirettamente,
a convincermi a continuare la storia del maresciallo Modiano
e della piccola comunità del paesino abruzzese.
Per scrivere il romanzo, però, non bastavano le poche nozioni che
avevo utilizzato per il racconto breve; così, oltre al ricordo degli anziani, è
stato necessario un lavoro di documentazione molto attento e scrupoloso, che mi
ha appassionato molto.
Devo anche dire che, essendo un fedele lettore di Guareschi, mi ha
sempre affascinato la vita dei piccoli borghi e delle piccole realtà locali.
Vorrei aggiungere, in merito al “mio” paesello, che pur essendo
una comunità molto chiusa ha degli elementi di “apertura” molto interessanti,
un'apertura che viene
esplicitata in particolare dai diversi personaggi “eclettici” che ne fanno
parte.
Questa è stata la genesi del romanzo, partito da un racconto, come
non infrequentemente accade. Considerata l'epoca in cui si svolge, penso che la
scelta del periodo di parte del ventennio
non sia casuale. E' così e, se è così, quali sono i motivi di quella
collocazione temporale?
Come dicevo prima, volevo parlare delle leggi razziali e di come
si posero diverse persone nei loro confronti. Il protagonista del mio romanzo,
il maresciallo Modiano, si troverà da un lato
costretto a far rispettare la legge, dall'altro a fare i conti con la propria
coscienza. Un problema etico che ha coinvolto molti tra coloro che hanno
vissuto quegli anni.
Oltre questa motivazione chiamiamola “sociologica”, ce n'è
un'altra più letteraria. Negli ultimi anni ho letto molti romanzi ambientati
nel periodo della seconda guerra mondiale o nell'immediato dopoguerra,
tantissimi negli anni '50 e '60. Solo pochi autori (ad esempio Lucarelli,
Camilleri, Machiavelli e Vitali) hanno collocato le loro storie in quel
periodo… appassionandomi quel tanto che è bastato per convincermi a scrivere di
quegli anni.
Ma detto così sembra molto riduttivo. Ci sono tante altre storie
che volevo raccontare di quel periodo. Ad esempio la truffa finanziaria di
Alvaro Marinelli (una storia vera), o la teoria
dell'elettroshock per la cura delle malattie mentali evolutasi proprio nel '38.
O, ancora, il fatto che anche l'Italia è stata oggetto di quello che oggi
chiameremmo “imbargo” nei confronti dei “paesi
canaglia”, allora definite semplicemente come “Sanzioni della Società delle
nazioni”.
Insomma, un bel po' di motivazioni, per la serie: “le cose non avvengono mai per caso”.
Ci sono tanti personaggi in questo libro, figure che con il loro
operare sono gli oscuri manovali della storia, quella che poi si studia, tanto
per intenderci. Ognuno ha la sua individualità, un ruolo ben preciso che viene
interpretato da grandi attori. Per esperienza so che un autore tende sempre a
ritrovarsi in uno dei protagonisti. Nel suo caso chi è e perché?
Ho lavorato per qualche tempo con una casa editrice, come lettore
di bozze e sono rimasto colpito da quante persone scrivano la storia della
propria vita.
Per molti “scrivere” significa per forza parlare di sé stessi. Io
scrivo per il motivo opposto, per trovare una via di fuga temporanea dalla mia
vita, non perché non la ami, ma semplicemente per una salutare evasione. È raro
che, anche nei miei racconti, io parli di esperienze autobiografiche. In questo
senso sono più un “ladro di storie”. Però è inevitabile che qualcosa di me
venga ripreso da alcuni miei personaggi. Non tutto da uno, ma
un po' da ciascuno. Così il rude Alfredo ha ripreso da me l'amore per i libri e
per la lettura, l'appuntato Inzirillo la passione per
il caffè, il pazzo Gerolamo la consapevolezza che la follia è “fuori e non
dentro i manicomi”. E, inevitabilmente, anche il maresciallo Modiano ha rubato qualcosa al suo creatore: il suo rapporto
con Inzirillo, ad esempio, è tipico di come io
interpreto il mio lavoro, puntando molto sul mio “secondo”. O, ancora, il porsi
con un pizzico di umanità di fronte al freddo testo normativo che vorrebbe una
cieca obbedienza alla legge, senza tener conto delle persone a cui si rivolge.
Ci sono poi ulteriori mie caratteristiche
in altri personaggi, ma, un po' per pudore un po' per necessaria brevità,
preferisco non rivelare quali.
Tutto il romanzo è pervaso da una sottile vena d'ironia che trova
sbocco anche nella satira con il personaggio del podestà, tutto sommato
simpatico, nonostante il suo procedere alla Starace.
Insomma, tutte le figure riescono a suscitare simpatia, tranne una: Leopoldo Lanfranchi. Ladro, profittatore, ammanicato viene
condannato senza appello. E' il personaggio negativo della storia, anche se
essenziale al suo integrale sviluppo. Non penso che ci sia il minimo margine di
identificazione con l'autore, questo individuo è una figura non avulsa, anzi
tipica in ogni epoca, tanto da ritrovarne di analoghe anche attualmente, come a
dimostrare che cambiano i tempi, ma non alcuni tipi di uomini. E l'epilogo
sembrerebbe confermare le analogie che ci sono fra l'epoca del romanzo e quella
odierna. E' così?
Ha colto in pieno il senso del romanzo, anche senza conoscere
molti retroscena della genesi dello stesso. Il romanzo, infatti, ha avuto due
stesure. La prima è stata riscritta quasi completamente su invito dell'editore
in quanto, a suo dire, l'ambientazione risulta troppo “attuale”. Il romanzo in
quella stesura non conteneva la figura di Leopoldo Lanfranchi
e delle sue malefatte. Nella seconda stesura, quindi, ho voluto dimostrare
all'editore che anche in quegli anni esistevano delle analogie molto forti con
i tempi attuali e pertanto mi sono messo alla ricerca di una frode finanziaria
che avesse delle analogie con quelle purtroppo messe in atto ai nostri giorni
da alcuni sedicenti finanzieri. Ho trovato la storia (vera) di Alvaro Marinelli e del fallimento di ben otto banche e ho poi
costruito la figura di Leopoldo Lanfranchi che è sì
di fantasia, ma è anche molto credibile in quanto somigliante ai tanti loschi
figuri in giro in quegli anni e che godevano delle protezioni dal regime.
Dopotutto essendo “Il colore del caffè” un romanzo di
ambientazione storica, la teoria dei “corsi e ricorsi” non poteva che trovare
piena attuazione.
E mi viene da dire “purtroppo”!
Una domanda che non è poi così ovvia: perché il titolo Il colore
del caffè?
Un protagonista “occulto” del romanzo è il cieco Alfredo. L'uomo
non vede con gli occhi, bensì con gli altri sensi e più in particolare con gli
occhi del cuore. È lui a percepire i colori della voce, delle stagioni, delle
persone stesse. E anche del caffè.
Il caffè, quindi, diventa metafora di vita e si trasforma in
qualcosa di diverso; non liquido nero, ma
caleidoscopio di tanti colori per chi sa guardare oltre.
È anche un elemento aggregante, un po' come lo è nella nostra vita
di tutti i giorni. Un elemento che allora era anche prezioso, vista la sua
scarsità a seguito delle sanzioni imposte dalla “Società delle nazioni”.
Ho voluto, quindi, rendere omaggio ad una presenza quasi scontata
della nostra vita, ma che acquisisce un'importanza notevole se vista con gli
occhi del cuore.
E' assai probabile che non le abbia rivolto la domanda a cui
avrebbe tanto desiderato rispondere. E allora le dico di formulare lei questa
domanda e di corredarla della risposta.
Una domanda che mi pongono spesso in questi giorni di uscita del
romanzo è “Perché scrivi?” o anche “Perché hai scritto questo romanzo”. È una
bella domanda perché mi permette in qualche modo di sedare il mio narcisismo
(tutti gli scrittori lo sono un po'… e quelli dilettanti come me forse lo sono
anche troppo). Con questa domanda forse riesco a sembrarlo un po' meno, ma
forse è una vana illusione.
In realtà io scrivo per rendere omaggio alla mia grande passione,
che è la lettura. Io adoro leggere e lo faccio sin da bambino. Ricordo ancora
il primo libro che ho letto (I ragazzi della Via Paal)
e anche il secondo (Cuore).
Ho però un grande difetto come lettore: prediligo quasi
esclusivamente (salvo rare e dovute eccezioni) autori italiani. Gli autori che
amo particolarmente (e che in parte ho già citato prima) scrivono della loro
terra e così mi è sembrato bello scrivere della mia bella regione, in questi
giorni così tanto martoriata. “Il colore del caffè” è stato scritto prima del
terremoto del 6 aprile ed in qualche modo la sua pubblicazione è stata per me
una specie di dichiarazione d'amore, a prescindere dall'impressione e
dall'interesse che hanno poi suscitato i tragici eventi del sisma devastante
che ci ha colpito.
L'Abruzzo è bello, forte e gentile. Lo era
prima del 6 aprile, lo sarà anche dopo.
Grazie per il piacevole colloquio relativo a un libro che è una vera
e propria sorpresa ed è con l'augurio che lo sia anche per i lettori che la
saluto, sperando che a questo romanzo ne seguano altri.
Il colore del caffè
di Arturo Bernava
Copertina di Vincenzo Bosica
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Narrativa romanzo
Pagg.: 199
ISBN: 9788889756775
Prezzo: € 12,00