Cu nesci arrinesci
Sicilia, speranze tradite e nuova emigrazione
A colloquio
con Giuseppe Matarazzo
di Salvo Zappulla
“Cu nesci arrinesci”. Chi se ne
va, fa fortuna. E' questo il titolo di un gustosissimo pocket, edito da Di
Girolamo, in libreria da qualche mese. Uno spaccato su una generazione di
giovani che non trova spazi in Sicilia, che per lavorare e inseguire i sogni
deve lasciare la propria terra. Un fenomeno silenzioso che sta lentamente
svuotando la Sicilia
di risorse umane, compromettendone il futuro. La Sicilia, tra speranze
tradite e nuova emigrazione, raccontata attraverso le testimonianze di
personaggi della cultura, dello spettacolo, della politica: Giovanni Puglisi, Enrico Lo Verso, Ficarra
e Picone, Stefania Prestigiacomo, Nino Frassica,
Marina La Rosa, Puccio Corona, Tony Sperandeo, Silvia Salemi, Anna Kanakis, il Mago Forest, Lando
Buzzanca, Rita Borsellino.
L'autore è il giornalista Giuseppe Matarazzo, redattore economico del quotidiano Avvenire. Siracusano, 33 anni, dal 2004
vive a Milano. Dopo gli esordi nelle cronache siciliane, è approdato in
Mondadori. Ha scritto per i settimanali Tu,
Sorrisi e Canzoni, Star Tv e il sito di Panorama. Nel 2008, con Orazio Mezzio, ha pubblicato il pamphlet Politica, le idee contano ancora? (Rubbettino).
Giuseppe, in Sicilia abbiamo il sole, il mare, la buona
cucina, eppure i giovani se ne vanno. Come tu stesso
fai rilevare nel tuo libro, l'ultimo rapporto dello Svimez
parla chiaro: ogni anno dal Sud vanno via centomila giovani lavoratori, dei
quali oltre 28mila siciliani. Tu sei giornalista, come mai i grandi gruppi
editoriali sono concentrati
al nord? E perché per affermarsi nel campo giornalistico bisogna
fare le valigie?
Non vale solo per il giornalismo. Al
Nord non ci sono solo le più importanti realtà editoriali. Ci sono anche le più
importanti aziende, banche, associazioni e una pubblica amministrazione che
realizza servizi e strutture per i cittadini. L'autostrada Milano-Venezia
è un alternarsi continuo di insediamenti produttivi. Da Catania a Palermo c'è
praticamente il deserto. E in questo deserto noi siciliani impariamo a
confrontarci, a scommetterci, a interrogarci. Così da una parte la Sicilia
diventa una palestra straordinaria: lo è stata per me da cronista, ma lo è
anche per un poliziotto, un medico, un insegnante o un commerciante. Dall'altra
è un tappo alle proprie aspirazioni. Perchè in
Sicilia – con qualche rara isola felice nell'isola – le opportunità sono
limitate e ho l'impressione che a molti amministratori e cittadini, questo
quasi quasi convenga. Ci si adagia in questo torpore.
Con un assistenzialismo e un clientelismo che permettono a larghe fasce di
popolazione di vivacchiare tranquillamente. Con partiti e politici che hanno
monopolizzato il “mercato” del lavoro, trasformandosi in uffici di
collocamento. La politica che si alimenta creando bisogni. Lo hanno denunciato
anche i vescovi italiani in un recente documento sul Mezzogiorno: è la classe
dirigente e l'abbraccio politica-mafia il cancro del Sud. E chi vuole invece
essere libero e camminare con le proprie gambe? Sente il richiamo del vecchio
Alfredo al giovane Totò in “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore: Vattinni.
Vattene. “Lascia questa terra maligna. Non ti fare fottere dalla nostalgia”. E' quasi un imperativo: se vuoi inseguire i
sogni dalla Sicilia devi andartene. Poi ci sono storie diverse, fortunatamente,
di chi ce l'ha fatta. Ma andare o restare dovrebbe essere una libera scelta.
Invece oggi per 28mila giovani all'anno andare è una necessità. Le valigie non
sono più di cartone, sono trolley firmati. Ma c'è lo stesso desiderio di
realizzarsi e di trovare fuori quello che l'Isola purtroppo non ti dà.
Ci vuole più coraggio a partire o a rimanere?
Ci vuole coraggio in ogni caso. Si
parla impropriamente
di “fuga” per quelli che se ne vanno. Come se il coraggio ce l'avesse solo chi
rimane e resiste e combatte. Ci vuole coraggio a partire, perché oltre quella
striscia di mare non si sa cosa si trova. Ci vuole coraggio a restare, ma senza
per questo essere necessariamente eroi o martiri di cui è tristemente segnata
la storia dell'Isola. Io penso che in assoluto ci vuole
più coraggio a partire e poi tornare. A realizzarsi pienamente al Nord o
all'estero e poi un giorno decidere di mettere a frutto la propria esperienza
in Sicilia. Una scelta non facile. Che può costare caro. Ci sono esempi
positivi meravigliosi, ma anche storie di chi si è scottato.
E tu ti sei scottato?
Dopo la mia esperienza in Mondadori, a
Milano, pensavo di poter investire nuovamente in Sicilia. Ma mi sono scontrato
con forze titaniche a livello amministrativo e politico
che impedivano ogni forma di innovazione, almeno dal mio punto di vista. Un
progetto è valido o no a seconda di chi lo presenta e a quale partito
appartiene. Così come per i concorsi pubblici: spesso banditi non per coprire
una reale necessità ma per sistemare qualcuno in particolare. Altro che merito!
Insomma, mi sono scottato, sì. Ho pagato il prezzo della “nostalgia”. Ho
ripreso la valigia. E ho trovato l'Avvenire.
Sempre a Milano. Certo, la Sicilia me la porto dietro. Cammina con me. Come
cammina con tutti i personaggi intervistati nel libro.
L'analisi che emerge dal tuo libro è impietosa, i numeri
del “disastro” come li definisci tu, non lasciano spazio alla speranza.
Miliardi di fondi dilapidati in corsi di formazione inutili e opere incompiute.
Perché tutto questo? Colpa della classe politica? Degli imprenditori? Della
mafia?
Colpa dei siciliani. Popolo straordinario
che, per usare un'espressione alla Camilleri, prende la forma dell'acqua. Si
adatta a tutto. Accetta supinamente quello che classe politica, imprenditori e
mafiosi propongono. Senza ribellarsi. Tranne in casi rari ed estremi. Come nel
dopo-stragi del 1992. Guizzi di indignazione in un mare silenzioso di
“tranquillità”. Se la Sicilia fosse quella che raccontano i numeri, nudi e
crudi, con la disoccupazione giovanile realmente al 30% e il reddito medio ai
limiti della povertà ci sarebbe la rivoluzione, la guerra civile. E invece
niente. Tutto tace. Lavoro nero diffuso, assistenzialismo dilagante, poche
regole, infrastrutture fondamentali viste come una conquista dopo 20 o 30 anni.
La verità è che a molti siciliani questo stato di cose sta bene. E sta bene anche
alla classe dirigente perché gli permette di mantenere il potere sul bisogno
della gente. Un circolo vizioso che “imprigiona” l'Isola. Il fiume di miliardi
arrivato con i fondi europei in questo decennio avrebbe potuto rimettere a
nuovo la Sicilia. Come
hanno fatto l'Irlanda o le regioni più povere della Spagna. E invece no. Noi li
abbiamo dispersi in mille rivoli per garantire l'esistente, finanziare corsi di
formazione inutili e ristrutturare casolari di campagna per trasformarli in
improbabili agriturismi. Quanti posti di lavoro hanno prodotto? Boh, nessuno lo
sa. Mentre il divario con il Nord, certificato da Bankitalia, aumenta.
La Sicilia gattopardesca, la Sicilia dell'isolitudine,
la Sicilia dei quaquaraquà; la Sicilia dai mille
volti e dalle mille contraddizioni. Ma è davvero così complessa
quest'isola? Si può rimanere senza farsi
invischiare dal sistema?
Certo. Ovviamente io estremizzo le
situazioni per andare al cuore dei problemi. Si può restare e riuscire. Come
hanno fatto anche molti miei amici. Ci sono professioni per le quali non è
necessario il sacrificio della spartenza. Ci sono spazi straordinari in molti settori. A
Catania c'è un polo d'eccellenza sulle biotecnologie. C'è poi l'agricoltura e
ovviamente il turismo. Un patrimonio straordinario da valorizzare non con la
partecipazione costosissima a fiere o con l'organizzazione di eventi che durano
lo spazio di un mattino, ma attraverso la realizzazione di servizi,
collegamenti e infrastrutture a misura di turista. Il mese scorso ho fatto una
passeggiata a Pantalica, la necropoli patrimonio
dell'Umanità Unesco, a pochi chilometri da Sortino.
All'ingresso ho trovato una novità: una casetta in legno pensata per offrire
informazioni e servizi. E' una delle cosiddette “Porte di Pantalica”.
Peccato che sia già in stato di assoluto abbandono.
Nel tuo libro hai intervistato siciliani di successo: dal
politico all'attore; dal giornalista, al cantante. C'è stata qualche risposta
in particolare che ti ha fatto riflettere?
Nonostante tutto resto ottimista! Per
questo, se devo fare una citazione, mi affido alla testimonianza di chi resta.
Una voce che ho inserito alla fine del libro, Rita Borsellino: “Io abito ancora
in via d'Amelio”. E' una frase di una forza incredibile. Il segnale di una
speranza possibile.
Un pensiero per il tuo paese, Sortino.
Sortino è stata la palestra di cui
parlavo all'inizio. Quando ho chiesto il cambio di residenza a Milano, mi è
venuta una stretta al cuore. Oggi vivo un rapporto contrastato con il mio
paese. Per tanti anni, con entusiasmo, ho dato il mio piccolo contributo per
provare ad allargarne gli orizzonti e farlo emergere. Ultimamente ho la
sensazione, ogni qualvolta mi capita di tornare, che sia un momento di
ripiegamento. Una delle possibili origini del nome, Sortino,
è che derivi dall'arabo Sciortin, vedetta. Sortino
una vedetta sul mare. Sortino che domina dai monti Iblei il golfo di Siracusa. Ecco mi auguro che il mio paese
abbia un nuovo scatto d'orgoglio e riesca a ripartire e volare alto.
Un pensiero per i tuoi genitori.
Quando mi è
arrivato il libro, fresco di stampa, la prima copia è stata per mamma e papà. Pacco postale con dedica: “Senza di voi non ce l'avrei mai fatta.
Grazie”. Purtroppo sono loro, sono i genitori a pagare
il prezzo dei sogni dei figli. Un rapporto che si alimenta a distanza ma che si
fortifica. Fra soddisfazioni, difficoltà e anche rabbia per questo destino a
volte incomprensibile.