Intervista
di Renzo Montagnoli a Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri, autori del racconto La coda di pesce che inseguiva l'amore, edito da Sampognaro & Pupi
Questo racconto, di
genere fantastico, mi sembra molto lontano dalle vostre produzioni, oltre al
fatto da essere stato scritto congiuntamente. Mi sembra logico, quindi,
conoscere la genesi dell'opera, dall'origine dell'idea alla sua effettiva
trasposizione su carta.
Il racconto nasce da un
percorso di condivisione già vissuto. Una prima esperienza sul blog del caro
amico e scrittore Remo Bassini, che lanciò la
provocazione di scrivere a quattro mani. Poi la presentazione
"combinata" dei nostri due libri: "letteratitudine, il libro" e "Tu non dici parole" che decidemmo
di aggregare sulla scorta del potere della parola, scritta e rimandata in rete.
E poi, ancora, la comune fede per l'apertura, per il rispetto per l'altro, per
la contemplazione, umile e sempre commossa, del destino dell'umanità tutta.
Queste sono le premesse comuni, la base spirituale da cui è maturata l'idea di
mettere insieme sogni e parole. Tuttavia l'episodio che ha dato vita al
racconto risale a circa un anno fa, quando - dopo l'inaugurazione del forte di Capopassero, posto sull'isola a largo di Portopalo - pensammo a una storia di mare e pirati, di bellezza lancinata dal
possesso, di sogni perduti. Ne ricavammo una forte suggestione. Eravamo
entrambi scossi dalla fragilità della nostra società, sempre in punto di sfaldarsi,
di smarrirsi. E decidemmo che una storia poteva
forse lasciare segno, emozione, nostalgia. Ci siamo detti che niente più della
scrittura, della sua capacità di resuscitarci e trasformarci, poteva prestarsi
a far riflettere. Non a fornire risposte...no. Ma
semplicemente a evocare il sortilegio, a innestare una malinconia sonnambula e
anche stregonesca, come di strie che accerchino un noce secolare. Il nostro
sortilegio è credere. La trama della storia in apparenza non risparmia la coda,
non la salva. Ma a salvare è ancora e soltanto aver potuto dire, aver potuto
narrare.
Ecco. La genesi del racconto è tutta qui: in un comune atto di puro amore per
la più forte delle speranze. L'arte.
La storia che avete
narrato ha tutte le caratteristiche di un fatto onirico, di una vicenda in cui
si amalgamano elementi concreti e visioni metafisiche della realtà. Per certi
aspetti ha il sapore di una leggenda rivisitata per parlare agli uomini di
speranze e di desideri, di sconfitte non irreparabili, ma che lasciano aperto
lo spiraglio per un mondo diverso, non fatto solo di classi ben separate, di
violenze per il possesso, ma soprattutto di amore, inteso non tanto nel suo
aspetto materiale e più retrivo, bensì come aspirazione massima dello spirito,
in un'unione più di anime che di corpi.
C'è un richiamo forte al
senso della natura, alla comunione con essa, che, senza giungere alla visione
idilliaca di Teocrito, riesce a fondere il
naturalismo con il misticismo proprio della trascendenza. In questo breve
racconto ho ravvisato elementi comuni ad un altro grande narratore siciliano,
Giuseppe Bonaviri, con quel concetto dello
spazio-tempo che domina l'esistenza, sia che ne siamo consapevoli, sia che lo
ignoriamo. E' un mondo arcaico sempre presente che viene riportato alla luce e
dove i grandi istinti, potremmo definire bestiali, si accompagnano a ideali e
speranze. Contrariamente a soluzioni di carattere religioso mi sembra che il
vostro sia un invito agli uomini a ritrovare se stessi, a penetrare nel più
profondo dell'anima per far riemergere il vento divino originario, l'unico che
consenta un futuro in un mondo finalmente più umano.
E' così?
Siamo d'accordo con
questa tua bella visione della nostra “coda”, caro Renzo.
Anche se ci siamo
limitati a raccontare una storia, raccogliendo alcune intuizioni e dando spazio
alla voglia di scrivere insieme, è probabile che l'invito che tu ravvisi, in un
modo o nell'altro, emerga tra le pagine della narrazione.
La nostra è una storia
molto siciliana sia come ambientazione, sia come linguaggio prescelto. Un
linguaggio che – nelle nostre intenzioni – dovrebbe servire a far immergere il
lettore in un'aura a metà strada tra quella storica e quella fabulistica, mischiando reale e surreale. In tal senso,
anche per il tipo di atmosfere che speriamo di essere riusciti a creare,
riteniamo sia possibile ravvisare analogie con il grande Giuseppe Bonaviri.
L'invito rivolto agli
uomini a
ritrovare se stessi, poi, punta sulla ricerca di quello spirito di condivisione
che molto spesso è stato trascurato, tradito, vilipeso.
Laddove non si riesce a
innescare il bisogno di puntare al bene comune, emergono piccoli e grandi
egoismi, meschinità, biechi tentativi di sopraffare l'altro. E quando questo
accade è difficile che sogni e bellezza riescano a svilupparsi o, addirittura,
a sopravvivere.
La nostra è la storia di
una bellezza non riconosciuta e trafitta, di un sogno caduto. Ma dici bene: si
tratta di sconfitte non irreparabili. Anche se la bellezza è trafitta, è sempre
possibile andare in profondità per riportarla in luce. Per riconoscerla e farla
riconoscere. Per rivendicare la sua esistenza.
È il presupposto per
ricominciare a sognare.
È questa, la speranza.
Sì, l'ambientazione e il
linguaggio rendono la vostra storia molto siciliana, ma il messaggio ha una
portata certamente non territoriale, bensì universale. Fra i vari personaggi ce
n'è uno molto particolare, ‘u zu'
Saru, che nell'atmosfera di tragedia greca ha una sua
precisa funzione, con quella sua capacità di vedere nel futuro e che introduce
all'atmosfera di ciò che accadrà. Per certi versi ciò che percepisce può
apparire enigmatico, come nel caso del pirata Dragut
oppure delle camicie rosse, ma il tutto ha una precisa funzione, un monito
continuo che turba il lettore e appunto il turbamento è lo scopo della tragedia
greca. Ma se il racconto è una metafora, altre ne sono ricomprese e
quell'accenno, con i garibaldini, all'imminente unità d'Italia, offre l'idea di
un imminente cambiamento che poi non avverrà, almeno nella sostanza. I
conflitti, fra le classi sociali, il desiderio di riscatto dei contadini a cui
Garibaldi promise la terra, già sapendo di mentire, porteranno poi ai tragici
fatti di Bronte. Mi sembra che nel racconto ci sia
quel concetto gattopardesco che tutto cambia per restare sempre uguale, una
condizione immutabile che condanna l'uomo a restare sempre nel ruolo
determinatosi nei secoli, una condanna a cui può sfuggire, con una libertà
intima, solo con l'amore. E come una tragedia greca termina, se pur con una speranza
di redenzione solo per chi non persegue rivalse, ma antepone a ricchezze e
potere la forza dei sentimenti.
Turi è uno sconfitto, ma
non un vinto, perché ora sa qual è l'autentico senso della vita. Siete
d'accordo?
Caro Renzo, hai letto
benissimo nella figura di zu' Saru.
In ogni aggregazione umana c'è un visionario, una voce che anticipa gli eventi,
li legge e che – forse – non ha solo facoltà chiaroveggenti,
ma artistiche, perché è l'arte la prima forma soprannaturale nella vita
dell'uomo. Ecco… zu' Saru è
un “poeta di malaventura”, ma pur sempre un poeta, e quindi un fiutatore di destini, uno che nelle tracce scomposte della
vita sa cogliere senso, sa mettere ordine, comprendendo in quale direzione
andranno gli eventi. E' per questo che nell'inquietudine generale che la coda
suscita, e nelle brame di possesso che si scatenano intorno ad essa, zu' Saru continua a profetizzare
di un pericolo imminente, di quel pirata Dragut che
aveva seminato terrore nel 1500 e il cui ricordo segnava comunque le coste con
un incombente senso di precarietà. Quasi con la promessa di un ritorno.
In questo senso, è vero.
Il destino del siciliano sembra essere sempre lo stesso, ma non perché un
animale immenso e ancestrale come la “Storia” lo incolli a un ruolo
determinato, a un futuro nei secoli ripetibile (l'immutabilità di cui parla Chevalley nel celebre discorso de “Il gattopardo”). Ma
perché è del siciliano chiudersi all'incedere del nuovo, farsi diffidente,
testardo, porsi subito in atteggiamento di difesa. Sentirsi sempre minacciato
da uno straniero.
E' anche per questo che
l'unificazione d'Italia fu per la Sicilia una grande occasione perduta.
L'inquietudine del presagio è quindi quasi apocalittica, da tragedia, come hai
sottilmente colto tu. D'altra parte è nel nostro essere figli dell'Ellade vivere sotto la sempre persistente minaccia della “katastrofè”, intesa – nel suo senso etimologico – come
“capovolgimento”, “rovesciamento di una realtà nel suo contrario”.
Quindi come tu – ancora una volta – sai ben cogliere, il significato di katastrofè, non è passivo
né mortale. E' anzi un significato eversivo, dinamico: il precipitare di
una situazione verso il suo opposto. Solo che questo opposto non è della vita,
non è delle classi sociali, non è mai della dimensione finita dell'esistenza.
Perché è morale, interiore, spirituale.
Per questo motivo Turi
può forse essere uno sconfitto, può forse assistere a una morte apparente, ma è
liberato dalla scoperta della vera bellezza, anche se la sua vittoria non avrà
alcun segno tangibile in questo mondo.
Ma c'è anche un altro
personaggio di tutto rilievo ed è la madre di Turi, donna di nobili origini
che, per amore, spezza quei legami di casta che la rinchiudono in una cella
dorata pagandone le conseguenze. Anche lei, a suo modo, è una sconfitta, ma
sempre non vinta, perché si è vinti quando non c'è nulla per cui valga la pena
di continuare a combattere; lei ha Turi, il frutto del peccato, la speranza di
un riscatto che non chiede, che non pretende, ma che è insieme la condanna di
una struttura sociale settaria e l'orgoglio di essersi a suo tempo ribellata. E
di quel parto, difficile e drammatico, c'è la rievocazione nel tentativo di
rianimare il figlio in preda alla febbre d'amore. E' una delle pagine più belle
del libro, poche righe intense in cui si misura un'altra forma d'amore.
Nell'atmosfera caliginosa del racconto è una luce viva che si accende e che
rischiara tutto, perché Laura, pur nel cupo grigiore della sua vita, ha con
Turi qualcosa in cui credere ancora e in cui sperare. Lei no, è ormai bruciata,
ma proietta nel figlio quella voglia di vivere che il tradimento alla sua
stirpe ha soffocato. Per contro, Vanni, amante della donna e padre di Toni, ha
un ruolo da comprimario, non certo di spalla, forse perché in lui non è stato
richiesto un atto di coraggio per superare il confine di casta, atto di
coraggio compiuto invece da Laura. Credo che lei sia la vera protagonista
principale, con quella sua ribellione pagata giorno per giorno, con quella sua
forza di resistere in funzione del figlio. Concordate?
Il ruolo di Laura è
fondamentale, nella storia. E' una nobile decaduta, che viene abbandonata dalla
sua famiglia - e dalla casta - per essersi innamorata di un pescatore/brigante
(condannato per il sol fatto di aver tentato di opporsi al potere nobiliare),
per aver avuto il coraggio di seguire il suo cuore.
Laura è disconosciuta dai
nobili e non riconosciuta dai poveri. Due volte abbandonata, due volte
vilipesa.
Nel momento in cui il
marito finisce in prigione, per dar da mangiare al piccolo Turi, è costretta a
prostituirsi... a concedersi ai pescatori in cambio di pesce. E quei pescatori non solo usano il suo corpo, ma la deridono.
Quella di Laura è una
bellezza oltraggiata, spenta, ferita dalla lontananza del marito, sporcata
dalla necessità di crescere il figlio. Perché un figlio non lo metti al mondo
una volta sola, ma tutte le volte in cui bisogna sottrarlo alle infamie della
vita.
Laura resiste. Nonostante
tutto, resiste. Concede il suo corpo, ma preserva la dignità di spirito. Uno
spirito che non si piega, che sa essere punto di riferimento del figlio nei
momenti di difficoltà. Sì, la figura di donna Laura è una figura
"chiave" del racconto. Forse, in fondo, rappresenta la stessa
Sicilia. Una terra bella, ma oltraggiata. Spenta.
Ferita. Una terra vittima di soprusi... e che pure, in un modo o nell'altro,
resiste. Nonostante tutto, resiste.
Ciò che stupisce in
questo vostro racconto è la luce, o meglio i giochi di luce, le ombre, i
chiaroscuri che contribuiscono in modo determinante a creare un'atmosfera quasi
onirica. Ci sono scene che rimandano il lettore a certi quadri del Caravaggio,
la cui bellezza riviene dal turbamento provocato dai diversi toni dei colori,
ma ce ne sono anche altre che richiamano opere cinematografiche, come quella
della mattanza, che mi ha fatto venire in mente la battaglia sul ghiaccio
dell'Alexander Nevsky di Eisenstein.
Senza togliere nulla alla vostra creatività, ritenete di essere stati
influenzati, meglio ancora ispirati, dal talento di
questi due grandi artisti?
Non c'è una influenza diretta. Ma è ovvio che la scrittura si nutre
dell'inconscio, dell'immaginario, di tutto ciò che assorbiamo anche senza una
percezione sveglia della realtà. Lo scrittore è spesso un dormiente e, come
tale, fa emergere nel sogno tutto il non detto, il non rivelato, il non
rimosso.
Luce e buio, poi, sono il
campo dell'esperienza letteraria. La scrittura non racconta mai solo il bene o
solo il male, e i personaggi non sono mai solo buoni o solo cattivi. Piuttosto,
ambivalenti come noi stessi siamo, oscillanti e dubbiosi tra i due opposti, su
quella soglia segreta e a volte incomprensibile persino a noi stessi che
chiamiamo coscienza. E' questo il campo della scrittura: l'uomo e la difficile
scoperta della verità su se stesso, una verità sempre fuggevole, rasente
l'ombra, sempre bisognosa di essere decifrata e – quindi – raccontata, detta.
In fondo, è come se per esistere veramente e trovarci avessimo bisogno di un intermediario, un fascinoso
narratore che sa rivelarci a noi stessi, e che non è altro che il fantasma
delle nostre infinite possibilità. Noi, insomma, ma anche tutti i noi,
infiniti, genuflessi, resuscitati, malati e risanati che siamo stati o che
saremo.
Vi ringrazio per la piacevolissima conversazione e vi saluto con
l'augurio che questo vostro bel libro incontri il successo che sicuramente si
merita.
La coda di pesce che inseguiva
l'amore
di Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri
Postfazione degli autori
Copertina di Alek Mudanò
Sampognaro & Pupi
Editori Associati
www.sampognaroepupi.it
Narrativa racconto lungo
Pagg. 64
ISBN 9788895760186
Prezzo € 12,00