Intervista
di Renzo Montagnoli a Ferdinando
Camon, autore di Tenebre su tenebre,
edito da Garzanti.
Strano libro, questo, costituito da
riflessioni, pensieri, in alcuni casi da articoli pubblicati su qualche
quotidiano. Se a me per leggerlo è occorso un anno (non per la lunghezza, ma
perché inevitabilmente questi brani suscitano altrettante riflessioni), penso
che per scriverlo sia stato necessario molto di più, o forse, con maggiore
probabilità, l'opera è frutto di scritti stilati in un arco di tempo piuttosto
lungo. Nell'ambito della produzione letteraria italiana Tenebre su tenebre
costituisce un genere atipico e peraltro non facilmente inquadrabile, ma è
indubbiamente un lavoro interessante che offre spunti per confronti, per dialoghi,
quasi dei dibattiti, come quello che mi accingo ad avviare con l'autore,
Ferdinando Camon.
Perché l'idea di riunire in volume
idee, riflessioni, maturate in più anni e che finiscono, nel loro insieme, per
delineare un quadro impietoso della società attuale?
Non sono articoli, sono il cuore di
ragionamenti maturati a ridosso della cronaca, in un decennio e più: se il
centro, la tesi centrale di quei ragionamenti non è stata smentita finora, ho
pensato che può avere una validità, cioè una attualità,
anche domani. Sono insegnamenti del passato ad uso del futuro. Non mi offendo
se qualcuno mi definisce “moralista”, penso anzi che tutto dovrebb'essere
morale, anche la politica, e una politica immorale o amorale, come piaceva a
Machiavelli e come abbiamo avuto fino a poco fa, non è accettabile. Ritengo che
sia necessario risalire a monte dello Stato, della Chiesa, della Costituzione,
delle Leggi, e interrogarsi sui primi princìpi e le cause prime, che non sono
affatto chiare. Illegalità dello Stato, colpe della Chiesa, ignoranza della
Scuola, contraddizioni della Costituzione (nostra e altrui),
scontri fra culture, in cui le altre hanno torto ma la nostra non ha ragione,
diritto di morire, primato della coscienza, fanno della vita un viaggio
disperato, in cui non c'è una guida ma in ogni attimo occorre trovare una
guida. Che varrà per quell'attimo.
Concordo e
pure io, magari con un approccio diverso, nel chiedermi dove sto andando, mi
sono immancabilmente domandato dove sta andando il mondo, che sembra una mosca
in un bicchiere capovolto: si agita, vola di qua e di là, e sbatte per poi sempre
verificare l'amara realtà della sua prigionia. Come ha ben detto Saramago,
l'attuale crisi non è tanto economica, quanto morale.
Però a me
sorge un dubbio, non sempre presente, ma che ogni tanto ritorna. Infatti mi chiedo se il mio atteggiamento moralistico sia
sbagliato, cioè se sono io che percorro una strada fuori da quel bicchiere in
cui inconsciamente tento di entrare. Cerco una risposta, che trovo nei miei principi
di onestà, di rispetto per gli altri, di convinzione che il pensiero del
cristianesimo non sia un'utopia, perché tutto ciò che, per un motivo o per
l'altro, non ci risulta comodo, lo liquidiamo con il termine impossibile. E'
tuttavia una risposta che, se mi rincuora, non fuga i miei dubbi e allora
quello che le chiedo è questo: siamo proprio sicuri che la nostra visione
pessimistica del mondo attuale sia giusta e che altrettanto giusto sia quel
concetto di moralità che ci accomuna?
Visto che lei parla di Cristianesimo, è
vero, al fondo della nostra civiltà c'è questa religione, però predica una
verità rivelata, e di fronte alla rivelazione si deve fermare ogni ricerca,
filosofia, scienza. È questo il punto. Il Cristianesimo non concepiva rapporto
possibile con l'”altro” se non in vista della sua assimilazione, o conversione,
cioè della sua distruzione come “altro”. Il Cristianesimo crede nell'assioma
che Dio è la verità, non accetta di cambiarlo con l'inverso, che la verità è
Dio. È un tema antico, ne parla già Socrate nell'”Eutifrone”, dove si pone il
quesito: una cosa è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? È
buona se piace a Dio, rispondeva Eutifrone, che è un sacerdote. E così ha
risposto ogni papa, fino al primo Ratzinger. Se un'azione è buona quando piace
a Dio, se al posto di Dio ci metto Hitler o Stalin, facendo la sua volontà
faccio il bene. Ci abbiamo messo duemila anni a liberarci da questo impianto.
Todorov insegna a non convertire, o non acculturare, nessuno. Noi diamo agli
altri tutto quello che sappiamo, lasciandoli liberi di accettare o no. Abbiamo
una società più arretrata rispetto a quella dell'impero romano, dove erano
possibili convivenze che oggi non ammettiamo. C'è poca scienza nella nostra
società, poca filosofia, e molta ideologia. Non abbiamo concetti, ma soltanto
preconcetti.
Sì, il
confronto con l'impero romano ci vede perdenti perché siamo succubi di noi
stessi, nel senso che siamo alla ricerca di un'identità che non ci è stata
tolta, ma che abbiamo perso per strada. E in un tempo come il nostro abbiamo un
concetto di razionalità che è irrazionale, di nazione che è più retorico che
effettivo, siamo un branco di naufraghi alla deriva pronti ad agganciarci alla
prima zattera che incontriamo, convinti che non ci sia di meglio, ma subito
lesti a disperare. A dirla francamente, l'uomo contemporaneo ha meno
personalità che in un passato lontano, è una massa belante che si crogiola in
una pseudo democrazia che è remissiva accettazione del governo di pochi. Si ha
paura dell'altro, di quello che viene da fuori, perché non ci si conosce
dentro, e d'altra parte la decadenza del mondo occidentale è sotto gli occhi di
tutti, e in questi periodi di disfacimento è logico, come dice lei, che non
esistano concetti, ma preconcetti, preconcetti che
sono alla fin fine oggetto di questo suo libro. Al riguardo
ricordo quanto scrive a proposito dell'analfabeta: “ Quando hai finito un romanzo, devi leggerlo di fronte a un grande
critico e a un analfabeta. Il
secondo non ha meno importanza del primo.” .
Eppure, se domanda a chi si picca di scrivere se leggerlo solo davanti a un
famoso critico e non anche a un analfabeta, la pressochè totalità risponderà
sdegnata che la seconda ipotesi è quasi blasfema.
Ecco, quindi,
la domanda, quella che ora rivolgo a lei, certo di non facile risposta: perché
ci siamo ridotti così?
Avevamo, e in gran parte abbiamo ancora, un'idea bloccata di storia. Di Stato, nazione,
progresso, religione, scuola, futuro. Ci sembrava che
il nostro domani sarebbe dipeso dal nostro oggi, che la nostra idea di Stato
sarebbe durata per sempre, che i nostri diritti sarebbero sempre stati i nostri
diritti, che i nostri figli sarebbero stati la nostra ripetizione, che la
nostra religione fosse frutto di una più perfetta rivelazione, che noi fossimo
“oi ghennàioi”, i migliori, e che chi arriva qui
dovesse diventare la nostra brutta copia. È saltato tutto. La Storia
impone agli altri diritti che noi non gli riconoscevamo, è finita l'epoca delle
storie separate, ogni popolo la sua con i suoi risultati: dobbiamo spartire i
risultati della nostra storia con i figli di altre storie. Predicavamo un
concetto astratto di umanità, ora l'umanità ci stringe d'attorno, ci assedia.
Tutto ciò che sapevamo non ha più un valore assoluto. Dobbiamo riapprendere. Né
nell'universo morale né nell'universo fisico.
Quando una
civiltà si culla sugli allori, è il momento in cui inizia a decadere. Perché a
una rivoluzione non segua una restaurazione, la rivoluzione deve essere
continua. Lo stesso ragionamento vale per l'evoluzione, che deve essere sempre
presente: il fermarsi implica che si resti indietro e non si possa più
riprendere il treno, su cui altri invece sono saliti al posto nostro. Certo che
in questo suo libro non mancano gli strali, che colpiscono anche la sua
categoria (Insegnare a un altro a
scrivere vuol dire insegnargli a copiare. Scrivere s'impara, non s'insegna.
Fondando scuole di scrittura, Pontiggia, Baricco e Mozzi creano imitatori, non
scrittori). Premetto che condivido quanto ha scritto
ed è comprovato dai fatti. Dalle scuole di scrittura non escono scrittori, ma scrivani. Eppure mi risulta che siano molto
frequentate e questo sinceramente mi è incomprensibile. Secondo lei, perché uno
dovrebbe partecipare a uno di questi corsi, ovviamente non gratuiti, per
scrivere in un modo uniforme, un'omologazione che sa tanto di catena di
montaggio?
Una civiltà decade quando non impara
più, perché crede di avere imparato tutto. La cultura non sta nel sapere, ma
nel cercare. La scuola non deve insegnare verità da imparare, ma un metodo per
cercarle. Le scuole di scrittura sono un non-senso: chi impara a scrivere da
uno scrittore-insegnante, sostanzialmente ripete quello scrittore, in peggio.
Non dovrebbero esistere nemmeno gli editors, cioè i lettori-correttori di
testi: ogni parola che sta in un testo viene dal vissuto dell'autore, se un
editor inserisce una propria parola sostituisce il vissuto dell'autore col
proprio. Molti anni fa l'”Unità” mi chiese un'opinione sul divorzio, era la
vigilia del referendum, la mandai, nel pomeriggio mi richiamarono 7-8 volte,
ogni volta per cambiare un aggettivo o un sostantivo, alla mattina dopo leggo
l'articolo stampato e mi chiedo: “Ma chi lo ha scritto?”. Non era più
mio. Quando lesse il mio primo romanzo, “Il Quinto Stato”, in manoscritto,
Pasolini mi consigliò di inserire una parola, una sola: l'ho fatto, ma ancor
oggi mi rimorde. Tuttavia ci sono quelli che s'iscrivono alle scuole di
scrittura, perché hanno un'idea scolastica e professionale della scrittura,
un'idea borghese. Vengono fuori scrittori da sottobosco, che poi cercano
editori a pagamento.
Il fenomeno
sembrerebbe quindi irreversibile, tanto che quando decade una civiltà è come un
masso che rotola lungo una china fino alla sua base. Secondo lei, sarebbe
possibile rallentare questo disfacimento o addirittura rimediarvi e, se sì, in
che modo?
Una volta la questione veniva posta in
altri termini: cosa c'è dietro l'angolo? Ogni politico, intellettuale,
filosofo, prete, docente intervistato dava la sua risposta. Finché apparve un
politico ex-comunista che rispose: “Io so cosa c'è dietro l'angolo”, ”E cosa
c'è?”, “Un altro angolo”. Quel politico è morto, non c'è più. Aveva
sperimentato la fine di un mondo che credeva epocale, e s'era visto trasportato
dalla storia in un mondo opposto. Se fosse vivo oggi, si troverebbe da capo
nella stessa situazione: il mondo si sgretola, non possiamo farci niente, e non
sappiamo quale sarà il mondo di domani, perché non possiamo vedere dietro il
nuovo angolo. In queste situazioni, capisco chi si fa prendere dalla nostalgia,
e spera che la storia faccia (come non farà mai) un salto indietro. Il mio
traduttore russo (una volta avrei detto sovietico) rimpiangeva Stalin, diceva
che con Stalin “c'era la chiarezza”. Di recente m'ha scritto un'email un suo
figlio, scappato già allora negli Stati Uniti. Mi chiedeva notizie recenti su
suo padre. A Istanbul mi ha intervistato uno scrittore islamico integralista,
calvo ma bello, un Yul Brynner, che mi trattava con disprezzo: lui nella
verità, io nell'errore. È fatale che le cose vadano così. Impossibile
convincerlo che la sua verità è provvisoria e relativa, come il mio errore.
Le dico che è
una fortuna non sapere cosa c'è dietro l'angolo, sia che si tratti di un mondo
migliore che di uno peggiore. Provi un po' a immaginare se potessimo conoscere
il nostro futuro: sarebbe un'esistenza terribile, sia che questo si presenti
roseo, sia che risulti tragico. E in questo modo non avremmo più né passato, né
presente, né futuro, ma solo una seguenza noiosa di fatti ed eventi che
toglierebbe ogni emozione.
Il suo libro
porta come sottotitolo “Quando Dio si vergogna degli uomini e gli uomini si
vergognano di Dio”. Vuole spiegarmi il significato di questa frase?
Che gli uomini facciano cose vergognose
è palese a tutti. Che nel nome di Dio vengano fatte cose altrettanto vergognose
è difficile dirlo e difficile accettarlo, per ogni religione, cristiana,
islamica, e le altre. Stiamo in casa nostra. C'è un capitano dell'aviazione
argentina, che ha guidato alcuni “voli della morte”, scaricando in mare
centinaia di ragazzi sequestrati dalla polizia e addormentati con iniezioni di
Valium, il quale anni dopo atterrò, per incautela, in Spagna, e la Spagna lo
arrestò, perché tra le sue vittime c'erano anche ragazzi spagnoli. Lui raccontò
che una volta, dopo uno di quei voli, si recò in chiesa e si confessò, per fare
la comunione. Il prete gliela diede dicendo: “Oggi, per te, questa è la seconda
comunione”, intendendo che il volo della morte era stato la prima. La Spagna
non ha la condanna a morte, e non ha l'ergastolo, però può condannare a un
numero di anni illimitato. A questo capitano inflisse 600 anni di carcere. Se
quel volo della morte valeva 600 anni di carcere, e se è stato possibile dargli
prima la comunione, ci si può vergognare di quella religione. È un esempio. Nel
mio studio, in una scatoletta, conservo una fibbia per pantaloni, comprata in
un mercatino di Brunico, in Alto Adige: è la fibbia della Wehrmacht. Porta la
scritta “Gott mit uns”. Di quel Dio che era con loro ci si può vergognare.
Più che
vergognarsi di quel Dio che era con i nazisti, ci si dovrebbe vergognare per
aver permesso che un'ideologia come quella nazista andasse al potere. Dio non
può essere né buono, né cattivo e solo gli uomini tentano di dargli
un'immagine, di considerarlo alla stregua di se stessi, e poiché l'uomo è
imperfetto, anche il Dio costruito da questi uomini è imperfetto.
In ogni
battaglia i contendenti invocano l'aiuto di Dio e questo offre la misura della
loro fragilità; il ricorrere a un giudice supremo per la vittoria non solo è
irrazionale, ma dimostra che l'evoluzione della specie è ancora enormemente
lenta.
Nel suo libro
ci sono delle riflessioni illuminanti, di una logica ineccepibile e parlare di
tutte – e sono tante – è praticamente impossibile. Qualcuna, però, merita più
di un'attenzione e un approfondimento, come questa: “Il nuovo papa, tedesco,
dichiara di voler condurre il mondo a Cristo. Non cambia nulla. Cambierà
tutto quando verrà un papa che vorrà condurre Cristo al mondo.”
Mi piace, ma
non sono convinto del tutto. Può spiegare in altri termini il significato?
Alle mie spalle, in questa stanzetta
dove scrivo, ho l'Abiuratio Galilei, il testo con cui Galilei rinnegava la
propria scienza, la malediceva e la condannava, e prometteva a chi lo teneva
sotto giudizio (7 cardinali, che occupano le prime sette righe della pagina),
che se girando per il mondo avesse scoperto scienziati che portavano avanti le
sue dottrine, immediatamente li avrebbe denunciati al più vicino tribunale
della Santa Inquisizione. Era un modo per ridurre il mondo a Cristo. Il
nazismo, lo stalinismo, l'islamismo usano modi analoghi. Il cambiamento da
raggiungere è l'impianto opposto: vediamo se ciò in cui crediamo si può
adattare alle nuove scoperte della scienza. Il sistema in cui viviamo è
plasmato dal nostro cervello, ma anche viceversa: il nostro cervello è prodotto
dal sistema in cui viviamo. Confesso che il mio cervello non riesce a concepire
uno spazio che si dilata infinitamente, occupando sempre nuovo spazio, e un
universo che s'è prodotto con l'esplosione di una microparticella che c'era da
sempre, anche quando non c'era niente. Qualche mese fa ho letto che questa
teoria viene sostituita da un'altra, che il Big Bang non fu un unicum, ma la
storia dell'universo è una catena di Big Bang che esplodono e reimplodono dopo
miliardi di anni. Non ho il cervello per incamerare questi concetti. Mio padre,
contadino, non capiva il sistema solare galileiano, gli era più chiaro quello
tolemaico. Io, suo figlio, non capisco la fisica post-einsteiniana. Nel sistema
in cui i mondi si succedono dopo miliardi di anni, si auto-creano e si
autodistruggono, vale il detto di Dostoievski che “tutto è permesso”, sparisce
ogni concetto di bene e di male. Non riesco a farlo mio.
Sostanzialmente è la differenza fra la
supposta certezza e il dubbio, dove quest'ultimo dovrebbe essere sempre
presente per comprendere dove si sta andando e per cercare di andare per il
meglio. Comunque c'è un'altra riflessione, molto illuminante, intitolata Sviluppo e civiltà. Lei scrive “ Secondo
gli americani (cito un economista) lo sviluppo economico di un popolo non è
compatibile con il mantenimento dei suoi costumi e delle sue usanze.” Poi, e per brevità salto alcune righe, aggiunge “Gli americani
vanno per il mondo a salvare i paesi poveri, portandogli la ricchezza ma
sopprimendo la loro civiltà. Dappertutto trovano una interminabile
resistenza, e la credono resistenza alla ricchezza, mentre è resistenza alla
perdita della propria civiltà. Nessun popolo può sentire l'arrivo del progresso
nella perdita della propria civiltà.”. E' vero, ma la civiltà proposta dagli
americani è una non civiltà, basata solo sul guadagno come fine di ogni popolo,
un concetto talmente deleterio che finisce con il ritorcersi contro chi lo
propugna, come stiamo anche osservando con la crisi economico-finanziaria
attuale. Con lo stesso sistema si vuole imporre poi un concetto di democrazia a
chi, per civiltà, non fa comodo. Ora, il declino dell'occidente appare ormai
inevitabile e progressivo, anche perché gli altri paesi europei si sono
omologati ai principi della potenza egemone e passivamente ne seguono le
vicende, disuniti e pronti a beccarsi come i polli manzoniani. E' un sistema in
cui tutti si puntellano per restare in piedi, ma basta
che uno scivoli e tutto crolla.
Secondo lei, noi europei abbiamo
rinnegato la nostra civiltà, accettando supinamente quella imposta dagli Stati
Uniti, o ancora in noi è presente un po' di orgoglio che potrebbe anche
sfociare in un rifiuto a un sistema di vita solo in apparenza gratificante, ma
che alla fine immerge tutto in uno squallore desolante?
I paesi che non sono disposti a
barattare ricchezza con civiltà, e che non accettano la civiltà americana, sono
i paesi islamici. Dove c'è l'Islam la civiltà occidentale penetra poco o
niente. L'Islam sente questo come una sua forza, noi occidentali lo sentiamo
come una sua forma di arretratezza. Gli islamici che vengono qui
faranno negli anni futuri, in un paio di generazioni, il percorso che noi
abbiamo fatto nelle generazioni passate: noi abbiamo acquistato in benessere,
ma abbiamo perduto la nostra civiltà. Rispetto al dopoguerra abbiamo perso un
tipo di famiglia, di coppia, un concetto di lavoro, di risparmio, di rapporto
tra generazioni, di sesso, di Dio, di vecchi, di solidarietà: abbiamo perso una
civiltà. Siamo uomini diversi, viventi in una famiglia diversa, in una società
diversa, e concentrati su valori diversi. Ogni impero dominante nella storia
impone i suoi valori. L'impero americano impone il valore dei soldi. Si fa
tutto solo per i soldi. I marines si arruolano e uccidono per i soldi, le
guerre si dichiarano per il petrolio, la Sanità è regolata per censo, e anche
gli studi all'università. Anche l'arte è sottomessa al denaro. Se fai un film
che incassa, potrai fare un altro film, ma se fai un film bello che però non
incassa, hai chiuso. Se hai un infarto per strada ma non hai un'assicurazione,
l'ospedale ti trascina fuori della porta e ti lascia morire sul marciapiede. È
un sistema turpe ma forte, lo Stato americano è iniquo ma potente. Nel breve
futuro che riusciamo a vedere con i nostri occhi, non cambierà. Questo è il
nostro mondo e sarà il mondo dei nostri figli.
E' un quadro
desolante, che lascia presagire un futuro sempre peggiore per la nostra
società, una situazione in cui ci siamo messi inconsciamente e altrettanto
inconsapevolmente continuiamo a sbagliare, pur fra lamentele varie, anche per
il timore di apparire diversi, e quindi di essere emarginati. Quella frase “Se hai un infarto per strada ma non hai
un'assicurazione, l'ospedale ti trascina fuori della porta e ti lascia morire
sul marciapiede.” mette i brividi e mi fa venire una delle riflessioni che,
a parer mio, è fra le migliori, quella sulla Carità e la giustizia.
Credo di non
aver mai trovato due definizioni migliori delle sue per fare comprendere come
dovrebbero essere. E opportunamente ha evidenziato il pensiero di Mao, una
soluzione non solo marxista, ma anche cristiana e liberale: .” se dai al povero un pesce, lo sfami una
volta; ma se gli insegni a pescare, lo sfami per sempre.” . La carità,
invece, consiste nel venir incontro a chi ha fame, affinchè non muoia,
nell'attesa che politicamente gli si insegni come procurarsi i mezzi per
mangiare.
In realtà i
paesi ricchi centellinano gli aiuti a quelli poveri, perché sono consapevoli
che la loro ricchezza esisterà solo a fronte di quella povertà. Non è più una
questione di surplus, ma di potenza,
che non deve essere mininamente scalfita, bensì, se possibile, accresciuta.
Lei cosa
pensa al riguardo?
Nel capitalismo non esiste il concetto
di carità o aiuto o sussidio, esiste il concetto di interesse o di affare. I
paesi poveri saranno aiutati quando aiutarli sarà un affare. Si possono aiutare
i paesi arretrati, e di fatto si aiutano, ma in
previsione del loro salire tra i paesi emergenti: allora l'aiuto è un
investimento, che è una perfetta pratica del capitalismo. Nel
rapporto con i paesi affamati, il capitalismo applica un suo principio: “Hai
fame? Colpa tua”. È lo stesso
principio per cui si dice: “Sono ricco? Me lo merito”.
Se un paese fallisce (come, nel momento in cui scrivo, pare succeda alla
Grecia), è giusto che venga divorato dai paesi sani che lo circondano. In
Parise c'è un marito, capo-famiglia, che è malato e sta in ospedale, ogni volta
che la moglie o i figli vanno a trovarlo, lui si vergogna: perché è malato,
tutti gli altri padri e capi-famiglia lavorano e portano avanti la loro
famiglia, lui non lo fa e se la sua famiglia è danneggiata, la colpa è sua. La
malattia come colpa è un concetto della società del lavoro. Non è un concetto
infondato. È possibile che il lavoratore non ami la sua condizione, la avversa,
e se ne libera rifugiandosi nella malattia. La “malattia come tornaconto” è un
concetto caro a Freud. Nel capitalismo non c'è limite alla corsa verso la
ricchezza, chi ha vuole avere sempre di più: teoricamente, la corsa dovrebbe
finire quando uno solo ha tutto. Ma sempre, quando lo squilibrio è troppo alto,
la storia si spezza.
Logica
ferrea, la sua, con una descrizione del capitalismo che sarebbe piaciuta tanto
a Marx e, che al di là delle opinioni, è purtroppo veritiera. Fino ad ora
abbiamo parlato di questo suo libro e mi piacerebbe continuare, ma le domande
finirebbero con l'essere in numero eccessivo, con il risultato che potremmo
andare avanti per giorni e giorni. Non nascondo che mi piacerebbe trattare con
lei altri punti, ma c'è un limite fisico che mi frena e che mi induce, per l'ultima
domanda, a passare ad altro argomento.
S'impara a
scrivere leggendo e nessuno sfugge a questa norma; però, ci sono autori e opere
che più ci influenzano e quindi, nel suo caso, che maggiormente hanno
contribuito alla formazione di Camon scrittore. Chi sono questi artisti, quali loro opere sono state determinanti e perché?
E se mi
permette, in uno con questa domanda, ne rivolgerei un'altra: a quale suo libro è maggiormente affezionato e per quale
motivo?
Sì, ci parliamo da troppo tempo, se
qualcuno ci seguiva all'inizio a quest'ora ci ha abbandonato. S'impara a
scrivere leggendo, e leggendo s'impara a leggere, quali libri
leggere. In giovinezza si legge di tutto, tutto ci nutre. In età matura
si sceglie, ci sono autori fraterni, la loro vita e la loro opera insegna
qualcosa alla nostra vita e alle nostre opere, se vogliamo tentare di scrivere.
Per me, sono stati importanti gli autori del Verismo italiano, Verga
soprattutto, e del Naturalismo francese, Maupassant più degli altri. E del
neorealismo, Pasolini in modo particolare. Anche il suo cinema, il suo primo
cinema, da “Accattone” al “Vangelo secondo Matteo”. E ancora i sudamericani,
Cortàzar più di Màrquez. Alla fine, sapevo interi capitoli a memoria. Non
rinnego nessuno dei miei libri. Ci sono articoli che ho scritto senza volerlo,
stanco, ad ora tarda, tra le 23 e le 24, perché un direttore me lo chiedeva,
aveva bisogno di quel pezzo e lo voleva prima di chiudere io giornale. Ma i
libri li ho scritti perché li volevo io, ognuno nasce da una necessità. Più di
tutti, “Immortalità”, quello che io chiamo così, e che così s'intitolava quando
l'ho mandato all'editore. L'editore italiano lo intitola “Un altare per la
madre”, quello francese “Apothéose”, quello americano “Memorial”… Credo che si
chiami “Immortalità” soltanto in Lettonia, Brasile, Turchia. Ma per me resta
“Immortalità”. Entrando nel mondo di là, lo userò come un lasciapassare. Una
volta mi chiedevo: Sì, ma in quale lingua? Italiana, francese, tedesca,
inglese, russa…? Visto come va la storia, escludo che nel mondo di là parlino
il russo.
La ringrazio per questa piacevole e
assai interessante intervista e la saluto con l'auspicio di avere altre
occasioni come questa per un nuovo scambio di opinioni.
Tenebre su tenebre
Quando Dio si vergogna
degli uomini e gli
uomini si vergognano di Dio
di Ferdinando Camon
Garzanti Libri
www.garzantilibri.it
Saggistica
Pagg. 368
ISBN 881159797-8
Prezzo
€ 18,00