Jenin.
Un campo palestinese. - Tahar Ben Jelloun –
Bompiani – Pagg. 75 – ISBN 9788845253287-
Euro
6,00
Voci
da una terra senza più terra
Che
grande scrittore, Tahar Ben Jelloun!
Nel
corso degli ultimi anni ho fortunatamente avuto occasione di leggere
diversi suoi lavori (dai saggi a vari romanzi) e il breve “Jenin”
spicca in modo particolare per il suo collocarsi, a mio parere, tra
la poesia e la prosa; anche quest'ultima, in verità, ha molto
di poetico.
Titolo
evocativo e fortemente significativo, quello del volumetto in
questione, che di colpo scaraventa il lettore nella martoriata
Palestina, tra le macerie della storia e di un dramma senza fine.
Alto e straziato, il grido di una donna ricoperta di polvere si leva
tra quelle rovine, fino a farsi voce corale del campo profughi di
Jenin, teatro di un efferato massacro, e di un popolo intero, nonché
di una terra santa e dannata che ancora oggi si domanda quando potrà
ritornare a essere semplicemente una terra d’ulivi.
Intanto,
i suoi figli sono costretti a partire, a disperdersi in nuove
infinite diaspore nei lontani quartieri dell’esilio, tra i
profumi vagabondi di sesamo e timo, sorte comune a molti palestinesi;
tra loro anche Mahmud Darwish, l’ormai compianto poeta della
resistenza, la cui voce brilla tristemente in mezzo alle altre che in
queste pagine piangono.
Una
toccante prova dello scrittore marocchino, la cui intensità
ritrovo in questi giorni tra le pagine de "La remontée
des cendres" (in lingua francese) che sto leggendo al
momento.
“[…]
qui il diritto non esiste, è come un fiore: non ci sono più
fiori nei nostri campi, non ci sono più giardini, più
sorgenti. Hanno distrutto tutto. Il diritto? È il diritto del
più forte. Il diritto abita in un tank, un carro, un
bulldozer, un cannone puntato sui civili…”
Laura
Vargiu
|