“Luciano Bianciardi: vita agra di
un anarchico”
di Gian Paolo Serino
Un anarchico toscano arriva a Milano con un progetto
preciso: far saltare in aria un grattacielo, simbolo di una Milano che ha
trasformato gli esseri umani in “larve”. Il profitto è lo strumento adottato da
una nuova forma di fascismo. Di questo ha scritto
Luciano Bianciardi nel suo romanzo forse più celebre:
“La vita agra”. Un libro deflagrante ambientato e scritto negli anni del
“boom”…economico. Pubblicato nel 1962 per Bompiani,
portato sullo schermo da Carlo Lizzani nel 1964 (con
protagonista un Ugo Tognazzi per la
prima volta impegnato in un ruolo drammatico) “La vita agra” viene ora
riproposto in un volume che raccoglie tutti i romanzi e i saggi di Bianciardi inaugurando una nuova collana, “gli
“Antimeridiani”, della milanese ISBN. Un volume che è un tributo ad un autore
che è stato tra i più profetici del secondo ‘900. Bianciardi,
infatti, ben prima di Pasolini, ha anticipato le
coordinate della nostra società capace di ridurci da consumatori a consumati,
da acquirenti ad acquistati. E' stato tra i primi ad intuire, per dirla alla Hemingway, che il cemento avrebbe ucciso la rivoluzione.
Una rivoluzione che Bianciardi ha profetizzato: il
'68 era ancora lontano e il consumismo, tra le luci di mille illusioni,
iniziava a divorare i cuori trasformandoli in anime al neon. E proprio Milano - dove lo scrittore, nato a Grosseto nel
1922, si trasferì nel '54 per collaborare alla nascita della casa editrice Feltrinelli- diventa per Bianciardi
simbolo della spregiudicatezza e dell'ingiustizia del potere. La
metropoli che condiziona, ingloba, appiattisce, distrugge tutto. Anche i sogni,
la solidarietà, gli ideali. “Bastano pochi mesi”,
scrive Bianciardi, “perchè chiunque si trasferisca
qui si svuoti dentro, perda linfa e sangue, diventi guscio: tra 20 anni tutta
Italia si ridurrà come Milano ".
Tutto nella Milano di Bianciardi
diventa metafora. Anche la nebbia: "La chiamano nebbia, se la coccolano,
te la mostrano, se ne gloriano come di un prodotto locale. E prodotto locale è.
Solo, non è nebbia. E' semmai una fumigazione rabbiosa, una flautolenza
di uomini, di motori, di camini, è sudore, polverone sollevato dal taccheggiare
delle segretarie, delle puttane, dei rappresentanti, dei grafici, delle stenodattilo; è fiato di denti guasti, di stomaci
ulcerati...". Anche i tram "traghetti" di un labirinto
infernale: "Ogni mattina la gita in tram è un viaggio in compagnia di
estranei che non si parlano, anzi di nemici che si odiano...". Una folla di
automi che non ha nessuna voglia di aprire gli occhi: perché la vita è già
triste. E così la marcia
frenetica sulla via del lavoro nei giorni feriali si converte soltanto in
un'eguale marcia, altrettanto frenetica, sulla via degli acquisti nel tempo
libero: “Gli automi vendono e comprano ogni cosa; i milanesi hanno la pupilla
dilatata per via dei colori, della luce, della musica calcolata, non battono
più le palpebre, non ti vedono (…) Io lo dico sempre, metteteci una catasta di
libri, e accecati come sono comprerebbero anche quelli. Ho letto su un giornale
che questo è l'agorà, il forum, la piazza dei nostri tempi, e forse è vero”.
Impressionante, se solo si pensa che sono parole scritte nei primissimi anni
'60: quando i centri iniziavano appena ad essere esclusivamente commerciali. Ma
la Milano di Bianciardi è anche quella del quartiere di Brera: allora artisti, poeti, pittori abitavano tristi
pensioni e affogavano le serate nelle osterie e nei bar oggi diventati
autentiche icone cittadine come il Bar Jamaica. Ma
per Bianciardi Brera era
una “cittadella guercia”, incapace di comprendere la distanza tra arte e
società. Il successo de “La vita agra”, 5 mila copie vendute in una sola
settimana, non bastò a placare lo spirito libero dello scrittore. Era deluso:
“Avevo scritto un libro incazzato e speravo si incazzassero anche gli altri. E invece è stato un coro di
consensi, pubblici e privati”. Come scrisse Giovanni Arpino
“Bianciardi iniziò a frequentare i salotti
intellettuali milanesi, ma lo faceva solo per ubriacarsi liberamente e poter
rompere le palle a tutti”. Un vortice autodistruttivo che porterà lo scrittore
a rimanere solo: esiliato per le proprie idee e per i propri comportamenti
estremi. Morirà il 14 novembre 1971, dopo 19 giorni di agonia, a soli 49 anni
per cirrosi epatica.
Luciano Bianciardi
Opere
ISBN, pagg. 1144, 69 euro