Lettera
alla madre – Edith Bruck – La nave di Teseo
– Pagg. 128 – ISBN 9788834609361
– Euro 16,00
Cara
mamma
È
una lunga, sofferta, a tratti straziante lettera quella che la nota
scrittrice di origine ungherese Edith Bruck affida a queste pagine
destinate idealmente alla propria madre ormai persa, al pari di
milioni di vittime innocenti, nell’indicibile inferno
dell’Olocausto sullo sfondo degli anni del secondo conflitto
mondiale. Una lettera che, da monologo, sembra farsi via via dialogo
dai toni sempre più serrati e intimi tra due persone –
madre e figlia, per l’appunto – il cui legame sia stato,
bruscamente e brutalmente, interrotto per sempre.
Apparsa
già sul finire degli anni Ottanta e ripubblicata da La nave di
Teseo all’inizio di questo 2022 con una breve nota introduttiva
firmata dall’autrice stessa oggi più che novantenne,
l’opera in questione non è un romanzo, come si potrebbe
pensare stando a quanto riportato in copertina; non si tratta infatti
di narrativa nel senso più classico del termine, non è
“fiction” ciò che viene raccontato, semmai una
prosa di carattere senza dubbio autobiografico in cui la fantasia
deve farsi da parte a favore di una realtà nuda e cruda che
ancora oggi atterrisce, ma della quale occorre conservare
memoria.
“Come
si faceva a diventare così presto nemici anche fra noi e
tirare un sospiro di sollievo quando toccava all’altro seguire
il selezionatore? […] Tutta la nostra speranza era di trovare
qualcosa da mangiare, un boccone non troppo magro e non troppo marcio
tra i rifiuti. Per sopravvivere, mamma, bestie feroci, altro che
pensare a nostra madre! Non mi chiedevo più nemmeno se eri
morta o se eri viva. Non sentivo più altro che fame. Non
desideravo altro che mangiare […]”.
L’esperienza
terribile vissuta ad Auschwitz e in altri campi di concentramento,
nonché l’esserne superstite e testimone, ha segnato la
vita della Bruck e di ciò parla buona parte di questo testo;
in esso, però, trova spazio anche il rapporto con la propria
identità ebraica, nella quale confluiscono lingua, religione,
fede che hanno continuato nel tempo a essere problematiche, in verità
fin dall’infanzia, prima ancora che la famiglia venisse
sradicata a forza, nel ’44, dal suo piccolo villaggio in
Ungheria.
“Non
so, mamma, perché vivo proprio io e non tu che avresti pregato
per tutti?Per me eri tu la fede […]”
Come
ne “Il pane perduto”, uscito lo scorso anno sempre con la
medesima casa editrice, anche in questa Lettera ci s’imbatte
nel ritratto di una figura materna troppo spesso dura e in apparenza
poco amorevole nei confronti dell’Edith bambina. Una donna
chiusa nelle proprio rigido credo di ebrea osservante che non perdeva
occasione per rimproverare quella figlia dall’animo sognatore
che lei stessa si chiedeva da dove fosse giunta, tanto si mostrava
diversa dagli altri, e che, invece di pregare, amava già
allora leggere poesie e “cose inutili”.
“Ah,
mamma, senza la poesia, senza l’arte la natura, la vita
sarebbero insopportabili, l’aria irrespirabile. Tu non sai
quanta verità può contenere un solo verso, una sola
parola.”
Ecco,
quindi, che l’Edith adulta, ripercorrendo quelle memorie
familiari lontane ormai decenni, all’interlocutrice confessa
con candore – lei che mangia quel che è proibito e non
sa tenere a mente le date delle feste comandate – le sue
mancanze in fatto di osservanza religiosa e ribadisce la ferma
convinzione delle sue scelte di vita. Il dolore interiore di chi
scrive è palpabile, affiora tra le righe a più riprese,
così come il desiderio bruciante, rimasto tale, di
un’approvazione e un amore da parte materna liberi da
condizioni unilaterali.
“Come
avresti vissuto tu il dopo, mamma? Avresti ancora pregato? […]
Noi due avremmo litigato sempre? Tu non mi avresti mai approvato in
niente, io avrei fatto ciò che ho fatto soffrendo il doppio.
Non mi rivolgeresti più la parola come da piccola. Ed era
peggio dei rimproveri, delle minacce, di qualche scapaccione o
schiaffo per colpa mia, perché l’avevo provocato io, no?
Nei tuoi silenzi c’era qualcosa di cattivo. Di pericoloso. […]
Mi addossavi tutti i tuoi guai di madre, di moglie, di ebrea. Dietro
la tua bocca chiusa per me c’erano cinquemila anni di storia
brutta.”
Quel
“dopo”, purtroppo, non ha avuto possibilità di
aver luogo e il loro rapporto pieno di contrasti non ha potuto avere
alcuna evoluzione, né in un senso né in un altro. Non
resta, dunque, che l’amarezza del rimpianto per l’amore
non ricevuto, o comunque molto diverso da quello bramato. A cornice
di tutto ciò, non mancano considerazioni sull’essere
ebrei in generale e israeliani in particolare; le parole verso
Israele e ciò che lo Stato ebraico compie non sono tenere, al
lettore trarne le proprie conclusioni.
Attraverso
una prosa di notevole profondità che è probabile sia
stata infine catartica, Edith Bruck ci consegna un’opera molto
bella (pur nella indubbia drammaticità dei suoi contenuti) che
da subito coinvolge e merita di essere letta. I morti chiedono pace,
allo stesso modo i vivi chiamati a seppellirli seppure non
fisicamente; in questo caso, a dare occasione di riconciliazione con
il passato è la scrittura stessa, ancor prima delle parole
rituali del Kaddish conclusivo.
Laura
Vargiu
|