Le
cose del mondo – Paolo Ruffilli – Mondadori
– Pagg. 198 – ISBN 9788804715801
– Euro 20,00
Il
viaggio nel magma alla ricerca della parola che plasma le cose
Prima
ancora che per il loro significato le poesie dell’ultimo libro
di Paolo Ruffilli, Le cose del mondo, attraggono per il
vortice sintattico in cui si strutturano, vortice pienamente dominato
dall’autore e che conduce d’un fiato il lettore dal primo
verso fino alla fine di ogni pagina, unendo e inframezzando una serie
di rime, anche interne, allitterazioni, assonanze, ossimori e altro
ancora, così che il componimento risulta avere un innegabile
andamento ritmico-musicale, come un’ininterrotta originale
melodia.
Questa
cifra stilistica, da sempre tipica di Ruffilli, raggiunge in questa
raccolta vertici assoluti: è il ‘passo’
ruffilliano ormai consolidato e sicuro entro il quale immette il suo
pensiero poetante, la sua riflessione, il suo sentire «le cose
del mondo». Un passo poetico che riesce, senza alzare i toni,
ad evidenziare tutto un complesso di comportamenti umani, suoi
compresi, ed insieme ad indicare, senza enfasi sapienziale, una
possibile via di salvezza. L’attenzione di Ruffilli si era già
indirizzata a scavare in anima mundi, spingendosi in
territori tormentati come quello del carcere e della
tossicodipendenza (Le stanze del cielo), dei rapporti amorosi
(Affari di cuore), fino alla ricerca del mistero della natura
e del linguaggio (Natura morta).
Ma
quest’ultima complessa raccolta poetica, suddivisa in sei
sezioni, può ben dirsi, ancor più delle precedenti, un
‘libro filosofale’, che si interroga e cerca risposte,
non sempre trovandole, forte però del suo porre sul tavolo del
gioco – e non solo quello, raffinatissimo, verbale – le
parole chiave che tornano nell’esistenza, nelle infinite
situazioni individuali e collettive: il viaggio nel tempo della vita,
la solitudine e i ricordi, le contraddizioni della morale e della
ragione, il desiderio e il piacere, lo spettro della morte e
l’aspirazione ad un oltre non effimero, trascendente, «quel
salto spiccato verso il cielo» (p. 101).
Nella
prima sezione, Nell’atto di partire, Ruffilli parte
richiamandosi, nella poesia d’apertura, al suavest lucreziano
ed epicureo: «Che stato di piacere / quello in cui, da fermi, /
si segue con lo sguardo / qualcuno in movimento / più lontano»
(p. 11), quasi a indicare che se il viaggio è importante,
necessario («È proprio andando che si capisce… È
il movimento a darci in dote la speranza / mettendo in relazione noi
stessi con le cose» (p. 14.), l’esperienza finale, di
stazione in stazione, di albergo in albergo – realisticamente e
metaforicamente intesi – lascia comunque l’amaro in
bocca, uno sconfortante senso di delusione e sradicamento, quasi di
rassegnata apatia: «Stazioni e bar, luoghi di scambio /
dispersi dentro il vuoto: tutte le volte / così stordito,
sbattuto tra la gente, fino a che / non te ne importa più
niente di niente» (p. 33).
E
allora la voglia e l’ansia di partire si confondono con quella
di tornare nella «pace nera» della casa, tra le cose
note, il desiderio di fuga e scoperta del mondo viene frustrato nelle
varie tappe, mentre le mete conquistate appaiono dolorosamente ardue
e vane, quasi dantescamente definite «deposte lì davanti
foglia a foglia», per concludere che «e si vedrebbe / che
non si avanza di una spanna, / che più si va e meno si trova /
e non si arriva da nessuna parte» (p. 24).
I
versi di Ruffilli mettono a nudo la sua e altrui condizione di
straniamento da una società che gli appare in uno «stato
inerte, sordo e delirante» (p. 18). «Test illuminante»
ne sono le carrozze dei treni, piene di «grida, spinte e puzza»
e definite, ancora con linguaggio di Dante, «bolge»,
mentre le stanze d’albergo, con il loro «odore vecchio di
federe e lenzuola / già nell’ingresso» divengono
al suo occhio, nonostante tutto «meravigliato», specchio
dell’«imperfezione imperdonabile del mondo» (p.
30). E allora, forse per quell’acuta sensibilità che gli
fa sentire ogni esperienza deludente come «un’incisione
dolorosa, una limatura in puncti loco, un taglio secco»,
ecco che l’aspirazione finale è il distacco del saggio
di fronte non solo al presente, ma alla «trafila di secoli e di
morti nella storia» (p. 27).
La
seconda sezione, Morale della favola, dedicata alla
figlia e con in exergo un pensiero di Lao Tze,
pensatore caro a Ruffilli, è un sottile dialogo con lei,
riepilogo di un conflitto generazionale, di un difficile percorso
formativo ed educativo. Uno scontro che ora, alla luce del presente,
ambisce a divenire un incontro, la confessione di un padre che, pur
senza essersi mai mostrato «eroe», ha cercato di indicare
una linea di giusto limite, lasciando la libertà anche di
«rompersi la testa» e, senza nascondere le sue fragilità,
ha cercato di far passare il testimone della sua «esperienza».
Ne nasce una serie di poesie tra le più felici e
intense: L’esperienza, Pretesa, L’evidente,
Salvezza, Allora, Scoperta, in cui si condensa il frutto di quel
viaggio nel fiume in piena della vita che ha portato l’autore-padre
a stillare i valori essenziali: la pazienza di attendere e insieme la
capacità di «comunque sia, non rinunciare» (p. 74)
e, quando arriva l’amore, di lasciarsi trascinare dalla sua
forza, per non essere poi travolti a fine corsa dal rimpianto.
Incisiva
e ossimorica già nel titolo, Notte bianca, la
terza sezione affonda lo scavo ruffilliano nel fondo dell’animo
umano, nella sua natura che ha «l’irresistibile bisogno
di levarsi puntando in alto e distaccandosi dal suolo» (Natura
umana, p. 82) ed insieme è pervasa da «un puro stato
andante del desiderato», sospesa sempre tra sogno e delusione,
tra «gioia e lutto», tra accadimento splendido e la sua
scia di rimpianto per non averlo del tutto vissuto o «perduto
prima di averlo conquistato» (L’oggetto del pensiero,
p. 88).
Il
poeta guarda in faccia coraggiosamente la realtà, quasi
esplora con precisione chirurgica i propri sommovimenti interiori, le
alterne sorti a cui ogni essere umano è sottoposto in quel
«fiume» del tempo che «scorre lento, placido a
tratti» ma è pronto a «rompere in furia gli
argini… a strabordare» sradicando tutto (p. 91, Il
tempo). La sua è una visione lucida, consapevolmente
venata di ironia, del destino non solo personale ma collettivo, in
una prospettiva universale di leggi fisiche di energia insite nel
«geiser» del mondo ma che rimangono inconoscibili e ci
pongono davanti a domande irrisolte, ad un «aperto insondabile
mistero» (Ogni minima creatura, p. 85).
Di
fronte ad una realtà che illude e delude, che abbaglia e si
oscura, non resta per l’umana ragione che prendere atto
dell’incoerenza di ogni verità assoluta e del «perenne
inevitabile contrasto / tutto così piccolo e tutto così
vasto». E quindi, conclude il poeta, «la molla certa / è
invece la contraddizione dentro l’unità» (Sogno
di non contraddizione, p. 98). Se Ungaretti affermava «Viviamo
nella contraddizione», in questa linea, sia pure con diversità
di esperienze, si pone Ruffilli, affrancandosi attraverso il pensiero
da «tutto il vuoto che ti separa via / dal resto del mondo e
della vita», per slanciarsi di nuovo «verso il cielo»,
come recita il titolo di una poesia, quell’altrove che «subito
aspirandoti ti afferra / non si ritorna più coi piedi a terra»
(p. 101). Il suo è un itinerarium mentis che,
a ben scavare tra le righe di questa intensa sezione, riconduce a
quella via indicata alla figlia e riporta il poeta, pur se ferito
dalla vita, a «trarre energia dal vuoto e dal dolore /destinato
ad imparare tardi e come / analfabeta molti dei segreti dell’amore»,
come si legge nel componimento Tardi che chiude la
sezione.
I
termini «cosa» e «cose» si rincorrono e
occhieggiano in molte pagine del libro (ne abbiamo contate ventinove)
e con la poesia Le cose si apre la quarta
sezione, Le cose del mondo, che dà titolo al
volume: originale sequenza di componimenti dedicati a oggetti
materiali di uso comune, ordinati in rigoroso ordine alfabetico e
sottoposti ad una descrizione che mette in risalto il loro essere
materia e insieme simbolo, compagni presenti nella loro fisicità
e al tempo stesso metafore continue del loro ruolo e servizio per gli
umani. Il ricorso alla metafora e alla personificazione è qui
portato al massimo dall’autore, che scatena tutta la sua
fantasia creativa e vis ironica, creando per ogni
oggetto definizioni e immagini quasi a raffica e riuscendo più
volte nell’intento sintattico di racchiudere la descrizione in
un solo periodo (si legga Cappello, p. 117).
L’uso
dell’ironia e del sottile gioco verbale mette a fuoco i
contrasti, i segreti insiti in ogni oggetto, con chiuse lapidarie,
perfette nella rima: così la «cartella» è
«tale e perciò solo conta: nell’essere, / come si
usa, riaperta proprio in quanto chiusa» (p. 118), il
«bicchiere» «sbrecciato, andato in pezzi dopo
essere caduto», è «la forma, incontenibile, di un
contenuto» (p. 115), la «porta», nel suo uso
continuo, finisce per fare «un doppio gioco: entrata uscita, /
paura e confidenza, la pausa e il moto. / La verità che si
apre e si richiude sull’ignoto» (p. 130) ed infine «la
scarpa» ha un «segreto» che «viaggia in
coppia: / cementa l’unità mentre si sdoppia» (p.
132). Le «cose», pur se banali e vaghe, sembrano
addirittura più forti e durature degli umani stessi. Scrive
Ruffilli: «Le persone muoiono e restano le cose / solide e
impassibili nelle loro pose». Ma anch’esse sono
sottoposte, «nel lungo andare», all’usura
implacabile del tempo che «le consuma senza strazio» e
«ne fa pezzi e polvere, alla fine», privandoci anche del
«tatto delle cose», quel toccarle come un talismano, un
possesso imperioso (p. 105), svelando infine il loro essere fantasma
inafferrabile dei sensi e della mente.
L’indagine
di Ruffilli su quanto di concreto e fisico faccia parte della realtà
umana si spinge fino all’Atlante anatomico, titolo della
originale quinta sezione, in cui sono passate al vaglio, sempre
alfabeticamente ordinate, le parti del corpo umano maschile e
femminile, dalla bocca alla caviglia, dalla pelle ai capelli,
ricorrendo ampiamente ai moduli stilistici della precedente rassegna
e componendo un glossario infinito di immagini. La descrizione in
particolare spazia e gioca con tutti i comuni modi di dire riferiti
alle singole parti del corpo, senza rifuggire da locuzioni
lessicalmente forti, puntando su ogni connotato sensoriale e fisico,
per poi invece concludere spesso il testo con il riferimento a quel
legame insondabile che riconnette la ‘carne’ al ‘cuore’,
il dettaglio anatomico all’umore, i sensi al sentimento che li
muove.
Nella
sesta sezione, Lingua di fuoco, Ruffilli ripropone un
tema a lui molto caro, già affrontato in Natura morta,
ovvero la parola, quel «magico reticolo del nome» che
staccandosi dal fondo primordiale «esonda» e dà
vita alle cose sconosciute, le plasma e le accende con un «clic».
Le parole hanno un «gelido potere» e insieme una libertà
infinita, quasi imperscrutabile, una funzione imprescindibile per
«ricondurre al dato universale / ogni dettaglio e singolo
particolare / nello sforzo istintivo di riorganizzare / negli insiemi
di idea categoriale / il vasto ibrido mare indifferenziato, dentro il
plurale, di zero e singolare» (p. 185).
La
parola è «lingua di fuoco» che tuttavia spegne «la
sete di risposta al buio del mistero» (p. 183), marchia per
sempre «l’essente». (p. 187). È questo
l’estremo approdo della ricerca ruffilliana, l’unica
certezza in un universo che si mostra più come caos che come
cosmos: la parola, «la voce che grida non parlando nel deserto
/ e dando nome a ciò che è assente / riplasma in
lettere l’essenza (p. 187). Viene in mente l’exergo del Nome
della rosa, «Nomina nuda tenemus» o anche il
foscoliano inno alla «magia e incantesimo della parola»,
pronunciato a Pavia nel 1809.
La
raccolta si chiude con nove composizioni ritmate e concluse da
inquietanti interrogativi, una ricerca ostinata di senso «oltre
l’inganno / e l’apparenza, / oltre la finta riconoscibile
/ sagoma del mondo» (p. 192). Una ricerca di luce in una realtà
fluida e cangiante che sembra dissolversi. La risposta è forse
– si chiede Ruffilli nell’ultimo Interrogativo –
nelle onde del mare, nel mistero delle sue acque camaleontiche? (La
nostalgia del mare, p. 197). Certo è che il poeta chiude
il suo viaggio in versi ribadendo l’importanza del «nominare»,
della ragione che si fa linguaggio e compie la sua vittoria, «musica
interiore che su da sotto sale /… parla del suo scontrarsi per
domarla con la resistenza delle cose» (p. 198). La parola
«cose» sigilla quindi questa sorta di complesso e maturo
poema, certamente una summa della poetica di Paolo
Ruffilli, della sua originale cifra stilistica e della sua libera
indagine etica, conoscitiva, linguistica ed esistenziale.
Patrizia
Fazzi
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