Omaggio a Poe
di Aldo
Moscatelli
Con l'arrivo dell'età adolescenziale, non è raro che un ragazzo si
ponga alla ricerca di un punto di riferimento. C'è chi ha la fortuna di
trovarlo all'interno dell'ambiente familiare e chi, invece, è costretto a
guardarsi attorno. Si cerca il Mito, in qualche modo, l'individuo da
idolatrare.
All'epoca dei miei 13-14 anni impazzavano Schillaci
(ma in declino), Ambra e le prime boy bands (ricordo vagamente i Pasadenas
e i New kidz on the block). I miei amici parlavano di
questi signori, della loro presunta grandezza. In tutta risposta, il
sottoscritto finì per mitizzare uno scrittore morto da un secolo e mezzo.
Quello scrittore si chiamava Edgar Allan Poe,
e avrebbe segnato per sempre la mia esistenza.
Ho scritto i miei primi lavori tentando di scimmiottarlo.
Schifezze immonde, per lo più, cestinate a pochi giorni dalla loro conclusione.
Ho letto e riletto i racconti neri di Poe, e le sue poesie, e tutto
il resto, tentando di carpirne il segreto. Per sei lunghi anni. Poi ho colto la
più evidente delle verità: quell'uomo era, ed è,
irraggiungibile.
Dopo tutto, parliamo dell'uomo che ha
inventato dal nulla il poliziesco moderno, con “I delitti della Rue Morgue” (senza questo racconto non sarebbe mai nato Sherlock Holmes, ammetterà Conan Doyle a distanza di qualche
anno). Ma non solo: Poe parla di inconscio ancor prima che Herbert
(e non Freud, come si ritiene erroneamente) diffonda il
significato di questo termine. Allo stesso modo, Poe anticipa il simbolismo (o
decadentismo che dir si voglia). Un bel giorno Boudelaire
legge quei racconti neri e capisce di non aver inventato un tubo. Di più: si
prende la briga di tradurre personalmente in francese l'opera omnia di Poe,
scrivendo pure le prefazioni. Magritte sancisce il
tutto, inserendo la copertina di “Storia di Gordon Pym” in un suo quadro. E per riallacciarmi al discorso
sull'inconscio, Jung finisce per imparare a memoria
“Il cuore rivelatore” e “William Wilson”, poi scrive “Inconscio, occultismo e
magia”.
Troppo avanti nel tempo. Per questo Poe ha avuto poco successo.
Gli rimproveravano di parlare di cose slegate dalla quotidianità, nei suoi
racconti.
Quali racconti? Elencarne i titoli non ha granché senso. C'è la
perfezione letteraria lì dentro, e tanto basta. A rileggerli si capiscono
parecchie cose. Omicidi, follia, perversioni, incesto, necrofilia, eros e thanatos. Poe non si studia seriamente a scuola, o lo si ignora del tutto, perché le sue tematiche fanno paura.
Più dei racconti stessi. Perché Poe parla del nostro lato oscuro, quello che
emerge in determinati momenti, e che in tanti (troppi) rifiutano oppure
ostentano, senza sforzarsi di comprenderlo.
Lo scrittore di Boston era, per primo, ossessionato dalla morte,
da quel che c'è al di là. Voleva vederlo in vita, il dopo. Si
spiega così la genesi di “La verità sulla vicenda del signor Valdemar”, e di
molti altri racconti. Attrazione e repulsione nei riguardi dell'inevitabile.
Come nel finale di “Storia di Gordon Pym”, il suo unico romanzo. Non un capolavoro, per carità
(così come non è affatto un capolavoro “Eureka”, il piccolo trattato filosofico
che scrisse negli ultimi anni di vita). Ci sono tempi morti e inutili
dissertazioni, in “Gordon Pym”.
Ma anche passaggi memorabili (il finale, l'arrivo della goletta olandese, la
sequenza pre-splatter a base di mutilazioni e cannibalismo).
Soprattutto, ancora una volta Poe anticipa. La
schiera di scrittori che hanno attinto tacitamente da “Storia di Gordon Pym” è infinita. Conrad e Lovecraft, per dirne
due. Eppure nessun altro è riuscito a mostrare con eguale forza visionaria quel
che c'è dopo,
il latteo nitore del nulla, che tutti accoglie alla fine di questa nostra vita,
e che attrae e terrorizza al contempo.
Le poesie, infine. “Il corvo” è la più famosa. Un capolavoro
assoluto. A scuola mi hanno obbligato a saltarla. Meglio leggere il poemetto
per l'onomastico di una certa signora, o la commemorazione da due soldi a
suffragio di un sanguinario nano francese. “Il corvo” no, almeno in Italia.
Parla di rimorso e disperazione. Non leggete “Il verme trionfante”, perché
sostiene che la vita è dramma, e la morte soluzione. Stata lontani anche da “Annabel Lee”, il più struggente inno all'amore perduto
mai concepito da mente umana.
Non facciamo leggere le poesie di Poe ai ragazzi, perché molti di
loro non riuscirebbero a impararle a memoria: le amerebbero e basta.
E. A. Poe è morto a quarant'anni, per
delirium tremens; lo trovarono agonizzante in una bettola, e lo trascinarono in
un ospedale, dove spirò. Nessuno riconobbe il cadavere. Non aveva retto alla
morte della sua compagna, Virginia, e l'alcol lo aveva divorato dal di dentro. Voleva andarsene, probabilmente. Profetiche
le frasi conclusive della poesia “Annabel Lee”:
“E così, nelle notti, io giaccio al fianco
del mio amore – mio amore – mia vita e mia
sposa,
nel suo sepolcro in riva al mare,
nella sua tomba in riva al risonante mare”
Grandissimo Edgar Allan
Poe, anche nello squallore della sua triste fine. Più vero di tante presunte
“anime oscure” di oggi e di ieri. Pensate un po': si dichiarò a Virginia,
chiedendole di sposarlo, in un cimitero. E quando, dopo la scomparsa di lei,
gli fu concesso di poter parlare al presidente degli Stati Uniti (il motivo non
lo rammento), Poe si presentò al suo cospetto completamente ubriaco.
Altro che Bukowski!
La sua condotta di vita, probabilmente, non andrebbe imitata. I
suoi lavori letterari, invece… beh, io ho provato a imitarli, tanto tempo fa,
ma senza successo.
Di una cosa sono assolutamente sicuro: il giorno in cui qualcuno
mi dirà che un mio racconto o un mio romanzo vale un centesimo di quel che ha
scritto E. A. Poe, capirò di essere diventato un grande scrittore.