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Letteratura
» James Ellroy Lo scrittore che abbaiava come un cane, di Carlo Bordoni |
01/08/2007 |
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James Ellroy
Lo scrittore che abbaiava come un cane
di Carlo Bordoni
Ho incontrato Ellroy nel 1989 a Cattolica, dove
presentava la Dalia nera, il suo
primo libro tradotto in italiano. Nei primi minuti del suo intervento non
parlò: abbaiò come un cane, tra il silenzio imbarazzato dei presenti. Era il “demon dog” che arrivava dai sobborghi di Los Angeles
(rappresentato nel film Demon Dog of the American Crime Fiction di Richard Jud, del 1993), ma ancora non lo sapevamo. Più tardi, a pranzo, si
rivelò una persona per bene, persino moralista, con idee decisamente di destra,
coccolato dalla prima moglie (un'esile biondina) e dallo staff editoriale mondadoriano che lo aveva promosso. Strideva decisamente
con l'aureola di scrittore maledetto che si portava dietro, ma non vi ha più
rinunciato. Marchiato da un'infanzia terribile, temprato da un'adolescenza
caotica, intrisa di droga, solitudine, violenza, malattia, periodi sempre più
lunghi di detenzione, c'è veramente da stupirsi di come sia
potuto diventare l'acuto cantore del noir
americano, l'erede indiscusso dell'hard boiled, il lirico reporter di un'America torbida e
sconosciuta. Al di là degli schemi abusati della Hollywood degli anni
Cinquanta. Una creatività nata dal dolore, dalla disperazione, dalla
depravazione. Con un chiodo fisso, uno shock
che lo accompagna per tutta la vita e che riappare, puntualmente, in tutti i
suoi romanzi: l'uccisione della madre, Geneva Hilliker, nel 1958. Quando aveva appena dieci anni. La Dalia nera è il romanzo della
sublimazione, la storia di una giovane donna uccisa in circostanze simili a
quelle della madre, la chiave psicanalitica che consente a Ellroy
di liberarsi dei fantasmi del passato e di condividerli con i suoi lettori.
Destination: Morgue (Bompiani, 2003) si compone di dodici
racconti “duri”, incentrati sull'Amerika amara tra
gli anni Cinquanta e la fine del secolo, dove l'elemento narrativo si fonde con
quello autobiografico, al punto da non esserne più distinguibile. Ellroy è il testimone consapevole di una società malata e
minata moralmente, ma prima di tutto è la vittima inconsapevole di quella
stessa società, in cui è cresciuto e che ha imparato a conoscere a sue spese,
senza mediazioni. Racconta della sua infanzia, dei giorni di scuola, degli
“anni morbosi”, seguiti da quelli dell'Amerika di Reagan, di Kennedy, di Clinton, di Bush. Con tutto il
marcio che li circonda: il male è in primo piano, è l'oggetto privilegiato
attorno a cui argomentare l'affabulazione.
Con un linguaggio da duro che sa di malavita, di ghetti, di slang interrazziale: difficile da
rendersi. Grande merito dei traduttori, che hanno saputo ri-creare il ritmo
martellante della prosa di Ellroy, al limite
dell'invenzione lessicale e dell'assonanza onomatopeica. Malgrado tutto, è
rimasto ancora il ragazzino dagli occhi sorpresi, un giocattolo di legno tra le
mani, della foto che spunta da un quotidiano del '58. Destination: Morgue, con i suoi flash allucinati di una biografia ipertrofica,
fa il paio con I miei luoghi oscuri (1997),
la ricostruzione di “quel” fatto di cronaca nera, la ricerca negli archivi
della polizia e della procura. Il suo primo serio tentativo di fare luce su
un'ossessione che gli ha dato il dono della scrittura. Potente strumento di
redenzione e di rivalsa sul male di vivere.
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