Luisito
Bianchi, uomo e sacerdote
di
Renzo Montagnoli
Era
il 5 gennaio del 2012 quando Luisito Bianchi ci ha lasciato a causa
di un male incurabile. Se n´è andato senza clamori, in punta di
piedi, come ha sempre vissuto, un sacerdote che ha continuamente
cercato di mettere in pratica il Vangelo, convinto dei valori della
fratellanza e della gratuità per migliorare in modo significativo
questo mondo che sarebbe, non dico perfetto, ma più giusto se tutti
non ci dimenticassimo che siamo qui in prestito, ognuno a percorrere
una strada dall´alba al tramonto, e proprio per questo, per il
comune destino, dovremmo cercare di camminare insieme, aiutandoci a
vicenda.
Ci
si potrà chiedere come mai abbia deciso di scrivere di Luisito
Bianchi a oltre dodici anni dalla sua morte e la domanda non sarebbe
per niente inopportuna o impertinente. Ho atteso così tanto perché
dovevo omologare la morte di un carissimo amico, non volevo parlarne
in preda all´emozione, volevo rappresentare agli altri quella
persona che veramente era e che è possibile conoscere, per quanto in
modo imperfetto, leggendo le sue opere. Ed è stato un suo romanzo,
consigliatomi da Remo Bassini, che di fatto mi ha avvicinato a
Luisito Bianchi. Parlo di La messa dell´uomo disarmato,
che molti hanno definito il più bel romanzo sulla Resistenza e in
effetti è anche questo; tuttavia, a mio parere, il suo pregio non
è solo l´aver parlato in un modo del tutto diverso dai non pochi
libri sulla nostra guerra di liberazione, ma è perché un´opera
sulla vita cristiana, sui rapporti fra l´uomo e la natura, fra uomo
e Divinità, sulle relazioni fra gli esseri umani. La
visione di Luisito
Bianchi non
è cattolica, ma cristiana, nel senso che si è spogliato
degli abiti talari quando si è accinto a metter mano alla penna e
così del suo ufficio è rimasta solo la sostanza, quel continuo
dialogo fra il razionale e il trascendentale che può benissimo
essere sintetizzato nella frase di Franco, il narratore
del romanzo: "Credi
in Dio? Non so, come una volta, ma credo
alla Parola annichilita e risorta per dare un unico senso alla morte
e alla vita".
Potrei
parlarne per delle ore, perché è un romanzo che ogni volta che si
rilegge porta a qualcosa di nuovo; e se poi consideriamo le splendide
descrizioni dell´ambiente, la capacità di ricreare le atmosfere,
definire l´opera un capolavoro non è assolutamente
un´esagerazione. Peraltro in non in poche parti è possibile
apprezzare l´animo poetico dell´autore, una considerazione che ci
induce ad altro, perché Luisito Bianchi è anche poeta e di valore.
In questo ambito ha scritto Vicus Boldonis terra di marcite,
silloge imperniata sull´Abbazia di Viboldone, di cui negli ultimi
anni della sua vita è stato cappellano. E´ una raccolta riuscita,
ma secondo me meglio ancora è Forse un´aia, che è
un flusso di memoria della giovinezza di Luisito al suo paese natale,
Vescovato in provincia di Cremona; credo proprio di non esagerare nel
definirla un autentico gioiellino. Per il resto della produzione ha
scritto dell´esperienza maturata, come nel caso di I miei
amici. Diari (1968 - 1970), in cui giorno per giorno (sono
circa 800 pagine) ha annotato le impressioni di un periodo della sua
vita quando fece l´operaio,
impressioni che talora si ripetono, magari con sfumature diverse,
perché l'avvicinamento all'assoluto di un'anima avviene
necessariamente per gradi.
Il
rapporto fra fede e chiesa, fra uomo di fede e uomo parte della
comunità degli altri uomini, anzi di una categoria sempre disagiata
quale quella operaia, sono i temi che vengono alla luce e donano
corposità e valenza all'opera, perché sono del tutto veritieri e
reali.
I
problemi di ogni giorno, materiali per gli operai, soprattutto
spirituali per Luisito, scorrono in queste pagine come rivoli,
torrentelli che poi vengono a confluire nel grande lago della
rivelazione di un servo di Cristo che del suo verbo ha fatto l'unico
modo di vita, povero fra i poveri, oppresso fra gli oppressi, paria
fra i paria.
Ne
emerge un quadro personale di grande spiritualità, ma
anche una visione del mondo operaio di quegli anni, non sfiorato dal
'68, come mai era stata realizzata.
Che
per certi aspetti Luisito Bianchi sia stato un prete scomodo è
dimostrato, oltre che da questa scelta di scendere nel mondo operaio,
anche dalla ferma convinzione che la gratuità sia una condizione
indispensabile nella vita dell´uomo; e lui ha improntato tutta la
sua vita a questo principio, rifiutando lo stipendio da insegnante di
religione, lavorando appunto come prete operaio in un'industria
chimica, vivendo in ristrettezze in un mondo che non riesce a
comprendere altro che i valori monetari. In questo modo è stato un
prete scomodo, critico nei confronti di una Chiesa che ha sempre
professato la sua sete di potenza, proteso a condividere l'esistenza
delle classi più disagiate, testimonianza sì di una fede, ma
soprattutto di una coerenza mai venuta meno.
Pubblicato
postumo Il
seminarista,
per
quanto l'ambientazione sia proprio in una scuola per preti, va ben
oltre il significato di una semplice vocazione, si corre incontro al
dilemma che sorge nel protagonista dopo l'8 settembre del 1943 fra la
fedeltà a una chiamata spirituale e l'impellente necessità di
essere partecipi dell'evento storico e unico della Resistenza dalla
parte di coloro che lottano per alti ideali di giustizia.
Nel
personaggio principale si colgono i riflessi dell'autore,
dell'esperienza maturata nel periodo, ma il romanzo non può essere
considerato autobiografico (il protagonista è di fantasia, il paese
natale e di residenza non è Vescovato, la vicenda stessa e la sua
conclusione sono frutto di creatività), bensì il risultato di una
scelta travagliata che in coerenza a essa segnerà il percorso
terreno di Luisito fino alla morte.
C´è
tuttavia un suo libro dove Luisito Bianchi è forse più sacerdote
che uomo, in cui, pur cercando di puntare i piedi per terra, tenta di
spiccare il volo verso il cielo, consapevole comunque che, nonostante
i fermi propositi, seguire integralmente il Vangelo è cosa tanto
rara quanto l´autentica santità; mi riferisco a Dialogo
sulla gratuità,
un testo difficile che necessita di più riletture, che può essere
condiviso o meno, ma che però apre uno spiraglio, una speranza per
il genere umano, senz´altro più chimera che obiettivo
concretizzabile, ma in cui è massimamente bello credere.
Si
ritorna però alla realtà di tutti i giorni con un romanzo
sull´esperienza di lavoro in fabbrica durata circa tre anni; e così
Come
un atomo sulla bilancia
diventa testimonianza di una condizione subordinata al di fuori di
tutti gli stilemi con cui altri ne hanno parlato, una testimonianza
civile, sociale, ma anche, soprattutto, spirituale.
Il
luogo natio, però, gli affetti familiari, le campagne , il mutare
della natura nel corso di un anno sono poi gli affreschi di un altro
capolavoro, Le
quattro stagioni di un vecchio lunario,
un inno all'epoca più bella della vita di ogni essere umano, quella
della giovinezza, spensierata, gaia, in cui gli ideali non devono
ancora far conto con la realtà del mondo.
Più
che un racconto questa narrazione finisce con il diventare il
recupero della propria trascorsa esistenza, nell'avvicendarsi di
stagioni astronomiche che si confondono con quelle della
vita, una sinfonia di suoni, di voci, di visioni e di aromi che
piano piano avvolge il lettore, fino a penetrargli dentro,
a coinvolgerlo, sì che da semplice spettatore ambisce a essere
protagonista di una storia irripetibile.
E
questo è il grande merito di questo libro, perché la memoria
di Luisito diventa anche la nostra memoria, perché
Vescovato diviene il nostro paese in cui avremmo desiderato di essere
nati, per vivere con lui, con l'autore, le esperienze di una
giovinezza ricca per l'animo e ritrovare quelle radici che il tempo
che passa, convulso e orfano della nostra attenzione, sembra aver
reciso.
Dal
gioco della lippa alla festa di paese, dai giorni scanditi dalle
ricorrenze religiose alla neve nei campi, al profumo di pulito dei
fiori del granturco, si disegna così, armoniosamente, questo grande
cerchio fatto di momenti, tutti egualmente importanti.
Prima
di chiudere desidero fare un piccolo cenno a un´opera forse minore,
ma senz´altro bella; mi riferisco a Quando
si pensa con i piedi e un cane ti taglia la strada,
in cui l´incontro con un cane abbandonato e affamato fa sorgere un
reciproco paritario affetto, quella gratuità a cui Don Luisito si è
sempre uniformato; alla bestiola dà anche un nome, Dorean, un
avverbio greco che significa, non a caso, gratuitamente. E´ una
lettura che rasserena, in presenza di concetti profondi, ma esposti
con mano leggera, e il risultato è quello che si potrebbe definite,
senza timore di sbagliare, un piccolo gioiello.
Le
emozioni che sono capaci di trasmettere le opere di Luisito Bianchi
sono tali che le provo anche mentre scrivo queste righe. Certo, è un
autore che non mi era anonimo, con cui mi sentivo spesso per
telefono, con il quale avevo anche avviato una corrispondenza di
vecchio stampo, con lettere spedite per posta, tutti elementi che me
lo fanno sentire ancor più vicino rispetto ad altri che conosco solo
con la lettura dei loro lavori. Resta però un fatto inequivocabile:
la bontà d´animo di Don Luisito, innata e che ha cercato di
trasmettere indossando l´abito talare.
Certo,
la perdita c´è, l´avverto, ma rimane il ricordo, vivissimo, e
che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni.