Il giovane Virgilio
di Renzo Montagnoli
Questo breve saggio è stato scritto con la speranza di tributare
un omaggio a un poeta che forse è stato il più grande fra tutti, un mio
concittadino fra l'altro, anche se lui è nato molto prima di me (quest'anno
sono ben 2.078 anni). Più conosciuto per l'Eneide, il poema che celebra la
nascita di Roma, ritengo tuttavia che abbia espresso meglio le sue grandi
qualità con le due opere precedenti, le Georgiche e le Bucoliche, soprattutto
con quest'ultima, una vera e propria esaltazione della semplice,
ma serena vita pastorale.
Gesù Cristo deve ancora
nascere e nella
Roma repubblicana Pompeo e Crasso sono consoli per la
prima volta: è l'anno 70 a.C..
In un piccolo borgo, poco
distante dalla paludosa Mantova, nasce il 15 del mese di ottobre Publius Vergilius Maro, figlio di un agiato proprietario terriero. Il fiume
Mincio scorre dolcemente fra i salici proprio vicino a casa e nessuno immagina
che quel pargoletto diventerà il più grande poeta latino.
Andes si chiama il luogo di nascita ed
esiste ancora oggi; anche se molto è cambiato ancora vi regna un'atmosfera
elegiaca, frutto della natura che si manifesta dolcemente con i campi ben
tenuti e ritmi di vita più lenti che consentono di soffermarsi a meditare sulla
grandezza del creato e sulla caducità degli uomini.
A onor del vero c'è più
di un sospetto che questo piccolo agglomerato di case non sia proprio il luogo natale del poeta, ed è proprio un passo delle Bucoliche, la
sua opera prima, che fa sorgere dubbi; infatti, nella nona ecloga il poeta localizza
la proprietà di Menalca, verosimilmente la sua, con
questi versi: qua se subducere
colles/incipiunt mollique iugum demittere clivo (di
dove i colli / cominciano a inclinarsi e il giogo a digradare in dolce clivo.).
In effetti, nell'Andes che si trova vicino a Mantova, i colli non esistono,
né ci sono mai stati: si può propendere pertanto per una località sempre
prossima al fiume Mincio, ma sita sui colli morenici.
Non mi sembra tuttavia che l'esatta identificazione del luogo natale sia essenziale per comprendere Virgilio, perché
artisti della sua qualità esulano da una territorialità, da cui eventualmente
traggono solo ispirazione, ma senza necessariamente presentare le
caratterizzazioni tipiche di certe zone, come inflessioni e modi di dire, che
in un eccelso non hanno riscontro.
Resta comunque un
elemento indubbio: Vergilius non è un cittadino, ma
un campagnolo; è abituato a vivere più fuori dalle mura che dentro le mura, il
suo ritmo di vita nell'infanzia è quello dettato dalle stagioni, i suoi
percorsi sono fra campi di grano e le sue soste sono in riva al fiume, fra
canneti ondeggianti e i mille rumori degli insetti e degli animali che vi
abitano.
Sono dell'idea che, pur
senza l'influenza di Teocrito, avrebbe in ogni caso
scritto dell'ambiente che lo circondava, di quella serenità del tutto naturale
che da adulto affermato costituirà un rimpianto, un ricordo mai dimenticato.
Ma ritorniamo a quel
neonato che si affaccia su un mondo e in uno stato che ben presto vedranno anni di grande
turbolenza, di vere e proprie guerre civili.
Si sa molto
poco della sua prima infanzia e anzi le scarne notizie sembrano solo
frutto di fantasie di letterati vissuti molti anni dopo la scomparsa del poeta.
Esiste tuttavia una data
certa ed è il 58 a.C.,
quando l'adolescente Vergilius lascia la casa natia
per andare a Cremona per studiare grammatica. Nel 55 a.C., poi, indossa la toga virilis, di colore bianco o avorio, simbolo del passaggio
all'età adulta, e nella circostanza si reca a Milano, all'epoca la città più
importante della Gallia Cisalpina, per approfondire i suoi studi.
Non passa un anno e muore
Catullo, il più importante dei poetae novi, che, come
noto, introdussero nella poesia romana metodi e gusti di quella alessandrina.
Il loro modo di poetare, così innovativo, influenzò radicalmente il giovane Vergilius che, nel 53 a.C., è a Roma per seguire le lezioni di
retorica del maestro Elpidio, corsi in cui non eccelle e che lo portano anzi
alla convinzione di non essere adatto alla vita forense o a quella politica.
Infatti, ed è una caratteristica che sempre gli resterà, non ama parlare a
lungo, né declamare: è, insomma, un uomo che oggi si potrebbero definire “di
poche parole”.
Nel frattempo il
difficile equilibrio della repubblica subisce ulteriori scossoni, dimostrando
la fragilità di un progetto che assegna a più uomini il governo dello stato.
Già nel 53 a.C.
Crasso è sconfitto e ucciso dai Parti, l'anno dopo c'è l'assassinio di Clodio, agitatore della plebe, e infine, trascorsi altri
tre anni di incertezze, in un'atmosfera di sospetti, scoppia la guerra civile
fra Cesare e Pompeo. Si sa come andò a finire:
Cesare, occupata Roma, insegue Pompeo, lo vince a Farsalo e lo fa uccidere in Egitto. Tutto finito?
Ristabilito l'ordine? Assolutamente no, perché nel 46 e 45 a.C. Cesare è costretto a
eliminare i pericolosi focolai di resistenza pompeiana in Africa e in Spagna,
e, quando gli riesce, comprendendo che sono maturi i tempi perché governi un
solo uomo, chiede e ottiene che il Senato gli conferisca la dittatura perpetua.
Ma le Idi di Marzo si avvicinano e nel 44 a. C. i congiurati uccidono Cesare.
E il nostro giovane Vergilius?
Poco si sa di questo
periodo: alcune fonti parlano di un suo soggiorno a Napoli per frequentare il
“Giardino”, la scuola epicurea di Sirone, mentre
altre accennano a un suo prudente ritiro nella sua proprietà di Andes. L'unico fatto certo è che si tiene lontano dalla
politica, tattica assai proficua, visto l'andazzo dei tempi, con il formarsi di
improvvise alleanze e l'altrettanto rapido rovesciamento delle stesse. E'
tuttavia più che probabile che abbia trascorso questo difficile periodo in
parte nella dimora natia e in parte a Napoli, dove la frequenza della scuola
epicurea parrebbe ormai assodata.
Che si sia trattato di anni
in cui era più prudente defilarsi trova ulteriore elemento probatorio nel fatto che anche gli
uccisori di Cesare hanno vita breve e
devono soccombere alla reazione del II triumvirato, formato da Antonio, Lepido
e Ottaviano. Inizia così un periodo di vendette, promosse più da Antonio che
dagli altri due, e la prima vittima è un personaggio di primo piano, Marco
Tullio Cicerone, strenuo difensore dell'idea repubblicana, ma anche grandissimo
autore di orazioni politiche e di scritti filosofici.
Ed è proprio negli anni
che vanno dal 42 al 39 a.C.
che Vergilius scrive Le Bucoliche, la sua prima opera
che gli conferirà da subito una grande fama.
“Bucoliche” deriva dal
greco βουκολικὰ,
cioè “Canti di bovari”, e sono una raccolta di componimenti formata da dieci ecloghe esametriche con argomenti
e intonazioni pastorali; ogni componimento è costituito da un numero di versi
fra 63 e 111, per un totale di 829 esametri. L'opera risente dell'influsso callimacheo, caratterizzata com'è dalla rigorosa perfezione
formale, aspetto questo peraltro sempre presente in tutti i lavori successivi
di Vergilius che, di fatto, crea un'impronta di
purezza letteraria a cui presto tutti cercheranno di adeguarsi.
Sarebbe però riduttivo
vedere le Bucoliche solo come un'opera stilisticamente perfetta, anche se lo è,
ma occorre considerarne i contenuti, con quella continua ricerca
dell'equilibrio interiore che traspare nei versi, un equilibrio che raggiunge
celebrando la grandezza della natura attraverso la soavità del canto, una conchiglia,
uno scrigno pregiato come unico e autentico rifugio dai drammi dell'esistenza.
Questo ritorno alla
purezza della natura, all'incanto della vita semplice costituisce una novità
assoluta per l'epoca e sembrerebbe confermare la presenza in Vergilius dell'anima celtica, un antico retaggio che
resiste nonostante la massiccia presenza della romanità, non disgiunta tuttavia
dall'influenza del greco-siculo Teocrito,
inventore quasi tre secoli prima della poesia bucolica.
In lui c'è anche la
sofferenza per quel distacco dalla terra natia per l'esproprio delle terre,
distribuite ai veterani nel 42-41
a.C. appunto dal II Triumvirato.
Ed è proprio con questo
evento drammatico che iniziano le Bucoliche e che sono l'unico tema della prima ecloga.
Tityrus/
Urbem quam dicum Romam, Meliboee,
putavi / stultus ego huic nostrae similem,
quo saepe solemus / pastore
ovium teneros depellere fetus: / sic canibus catulos similes, sic matribus haedos /
noram; sic parvis
componere magna solebam. / Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes, / quantum lenta solent inter viburna cupressi.
Titiro/
V'è una città che chiamano Roma. Io stolto, o Melibeo,
/ la credetti simile alla nostra, dove noi pastori /
spesso usiamo avviare la tenera prole del gregge: / così conoscevo i cuccioli
simili ai cani, i capretti /
alle madri; così solevo paragonare il piccolo al grande. / Ma
questa città sollevò tanto il capo tra le altre, / quanto sogliono i cipressi
tra i molli viburni.
Nella seconda ecloga invece Vergilius rivela la sua indole, perché vi viene cantato
l'amore omosessuale (Formosum pastor Corydon ardebat Alexin, / delicias domini; nec quid sperare habebat.) ( Il pastore Coridone
ardeva per il bellissimo Alessi, / delizia del suo padrone; ma non aveva
nessuna speranza.). E' un canto bellissimo, in cui la disperazione
dell'innamorato respinto assume toni struggenti nel contrasto fra la vita
opulenta che può offrire il padrone animato più dalla lussuria e l'incanto del
contatto con la natura che sola può esaltare i sentimenti ( O crudelis Alexi,
nihil mea carmina curas? / nil nostri miserere? Mori me denique coges. / Nunc etiam pecudes
umbras er frigora captant, / nun virides etiam
occultant spineta lacertos;) (O
crudele Alessi, nulla curi il mio canto? / non hai compassione di me? Infine mi
farai morire. / Ora persino i greggi prendono l'ombra e il fresco, / ora i
roveti nascondono le verdi lucertole;)
La terza ecloga presenta la
caratteristica di uno stornello, alternato, fra due contendenti.
E' possibile ipotizzare
una tenzone poetica, nella quale Menalca impersona
Virgilio e la sua “nuova” poesia. Ci sono personaggi reali, quali Asinio Pollione, che si occupa anche lui di “nuova” poesia
e Bavio e Mevio, rivali non
solo di Virgilio, ma anche di Orazio.
Non riporto brani, perché
l'ecloga ha una sua valenza per la notevole vivacità della contesa e quindi è
necessario, per poterla apprezzare, leggerla per intero.
La quarta ecloga richiede i più ampi approfondimenti.
Tu modo nascenti puero,
quo ferrea primum / desinet
ac toto surget gens aurea mundo,
/ casta, fave, Lucina: tuus iam
regnat Apollo ( Tu, casta Lucina, proteggi il bambino nascituro / con cui cesserà la
generazione del ferro e in tutto il mondo / sorgerà quella dell'oro: già regna
il tuo Apollo.).
Ci si pone subito una
domanda: chi è il nascituro?
Sì, perché non è un evento
da poco, considerato che la sua venuta comporterà la fine del periodo buio, di
violenza, e sorgerà l'età dell'oro. E' certo una frase sibillina che si presta
a molte interpretazioni, tutte egualmente probabili, ma sicuramente non certe.
C'è una sorta di
ottimismo, una speranza quasi concreta in questi versi e quindi potrebbero
essere intesi come augurio al console Asinio Pollione,
a cui l'ecloga è dedicata, mediatore della pace di
Brindisi fra Ottaviano e Antonio, che faceva sperare in una fine della guerra
civile. Non mi convince tuttavia questa interpretazione, perché i versi
sembrano trascendere il tempo in cui sono stati scritti, proiettando la
speranza in un'epoca futura e di certo non vicinissima (Tu, casta Lucina – che poi sarebbe Diana –
proteggi il bambino nascituro…); quindi è concreto il concetto di un avvento,
con un nascituro figlio di una divinità casta.
Qualcuno ha ipotizzato che si possa trattare del futuro figlio di
Ottaviano e di Scribonia, ma nella realtà i due
ebbero una femmina, la famigerata Giulia. E nemmeno ritengo probabile che ci si
riferisca al figlio di Asinio Pollione, visto che non
era deputato a succedere al padre. I Cristiani hanno pensato a Gesù, con la
Madonna nella veste di Lucina, tanto che nel medioevo Vergilius
fu ritenuto un profeta. Se questa sembra l'interpretazione più confacente (non
dimentichiamo la figura di Vergilius nella Divina Commedia),
però è la più fantastica e la meno aderente alla “mens”
romanica dell'epoca, perché non dobbiamo dimenticare che il nostro poeta, per
quanto grande, era uomo del suo tempo, né poteva appartenere all'ebraismo, con
il concetto di unico Dio, e l'attesa del Messia. E allora quale può essere
l'interpretazione più plausibile, senza avere la pretesa che sia l'unica
possibile?
Da secoli girava per il
mondo conosciuto, proveniente dalle religioni orientali per arrivare poi in
Grecia, il mito del “divino fanciullo”, già presente nel mondo egizio, come
testimoniato da reperti archeologici. Secondo questa interpretazione, Vergilius, attirato dall'atmosfera di leggenda, se ne
sarebbe appropriato e avrebbe buttato lì l'idea di tributare in tal modo gli
onori a tutti i prossimi nascituri di una riappacificata repubblica romana e
quindi nati dalla speranza, sempre casta.
Devo dire però che sono
perplesso e allora provo a fornire la mia personale interpretazione.
Vergilius
si defilava, come si è detto, nei periodi di crisi, ma
nulla toglie che sia possibile pensare che si facesse una certa idea dei
protagonisti; era uomo che parlava poco, ma aveva intuito e con buone
probabilità scommise su Ottaviano, ancora semplice tribuno. Ora, se per lui
Ottaviano non poteva essere che la soluzione dei problemi di Roma, il nascituro
era il suo avvento, cioè la sua presa di potere; per quanto ovvio poi,
quest'idea rappresentava una speranza, legata anche alla possibilità di riavere
le sue terre, ed ecco allora la madre Lucina, intesa non tanto come Diana, ma come la sacralità della speranza
nell'oscurità della disperazione.
Certamente
un'interpretazione univoca appare ben lungi da essere realizzata, ma nulla
toglie all'importanza di questa quarta ecloga, generalmente definita cruciale
nell'opera.
La quinta ecloga riprende un tema classico
e caro a Teocrito, cioè quel Dafni
cantato come il pastore di grande bellezza e perfetto in tutto. Questa
specie di ode a tale personaggio da leggenda ha dato luogo a un paio di
interpretazioni e c'è così chi vede in Dafni assunto in cielo Giulio Cesare
divinizzato dopo la sua morte, mentre altri, più ragionevolmente a mio parere,
vedono in lui il fratello di Vergilius prematuramente
scomparso.
Menalcas/
Lenta salix quantum pallenti
cedit olivae, / puniceis humilis quantum saliunca rosetis, / iudicio nostro tantum tibi cedit Amyntas. / Sed tu desine plura,
puer; successimus antro. (Menalca / Quanto il
flessibile salice cede al grigio olivo, / e l'umido nardo selvatico ai purpurei
rosai, / a nostro giudizio, mtanto ti cede Aminta. / Ma basta parlare, ragazzo: siamo già nell'antro.)
La sesta ecloga
è un inno pastorale, dedicato al governatore della Gallia
Cisalpina Alfeno Varo che forse avrebbe preferito una
poesia epica, ma al momento Vergilius, che mai
indosserà armature, non si sente pronto - Nunc ego (namque super tibi erunt qui dicere laudes,/ Vare, tuas cupiant et
tristia condere bella) / agrestem tenui meditabor harundine musam. – Ora io (poiché
avrai abbondanza di quelli / che vorranno cantare le tue lodi e celebrare le
funeste/ (battaglie, o Varo) studierò sull'esile flauto una canzone agreste.
E quasi a scusarsi per la
momentanea incapacità di esprimere versi epici, provvede a dar fondo a tutte le
sue risorse per arrivare a una composizione in cui l'aspetto pastorale
raggiunga le più alte vette possibili (Tum canit Hesperidum miratam mala puellam, / tum Phaethontiadas musco circundar amarae / corticis, atque solo proceras erigit alnos.)
( Poi canta la fanciulla stupita dai pomi delle Esperidi, / e
narra come le sorelle di Fetonte si racchiusero nel
muschio / di un'amara corteccia e si eressero dal suolo dritti ontani.).
L'aspetto mitologico è il
pretesto per trasporre l'immagine della sacralità della natura, sì da renderla
una vera e propria divinità.
Nella settima ecloga l'influsso di Teocrito è preponderante:
Huc ipsi potum venier per prata iuvenci; / hic virides tenera praetexit arundine ripas/ Mincius, eque sacra resonant examina querce. (Qui verranno pei prati ad abbeverarsi i giovenchi / qui il Mincio
costeggia di tenere canne le rive, / e dalla sacra quercia si sentono ronzare
gli sciami.)
Sembra di vedere la
scena, se ne avverte l'atmosfera, si ode perfino il ronzio delle api, una vera
e propria parentesi di serenità in un quadro di più di duemila anni fa, una
memoria che viene tramandata di generazione in generazione, un paradiso che
piano piano l'uomo ha cancellato. Sono versi di
notevole impatto emotivo che solo un grandissimo poeta poteva scrivere con
poche semplici parole.
L'ottava
ecloga ha come tema la gelosia pura ed è
dedicata a Pollione, vincitore sui Dalmati. E' una gelosia che tende
all'incantesimo, con i due innamorati che si alternano, ma pur in presenza
della consueta rievocazione e di immagini di scongiuri, non riesce a far
sorgere una tenebrosa atmosfera di magia; il tutto rimane chiaro, reale, non so
se per precisa scelta dell'autore, incline alla moderazione, oppure perché il
tentativo non ha sortito effetto. In tutta franchezza è quella che mi ha meno
soddisfatto con quella sua artificiosità che contrasta con l'apparente
naturalezza delle altre.
Con
la nona ecloga ritorna l'argomento della prima:
l'esproprio forzato delle terre nel mantovano a vantaggio dei veterani di
guerra. Vergilius, nonostante l'interessamento
dell'amico Alfeno Varo, il governatore della Gallia
Cisalpina, perde tutte le sue terre e la dimora natia, il che lo costringerà a
cercare casa altrove, trovandola a Roma. Gli umili contadini e pastori sono
privati di loro ogni avere
e allora, in un tentativo di consolazione, cantano brani di carmi
che, con molte probabilità, sono poesie non ultimate da Vergilius
e che quindi fanno sì che questa ecloga presenti caratteristiche di
frammentarietà e anche di non facile interpretazione, a differenza delle altre.
Un altro motivo, però, potrebbe essere dato dal senso di frustrazione del poeta
per l'aver perso, con la sua casa natia, anche il legame con il suo mondo, un
senso di smarrimento che potrebbe giustificare l'incompiutezza e anche
l'oscurità del senso.
Moeris / O lycida,
vivi pervenimus, advena
nostri / (quod numquam veriti sumus) ut
possessor agelli / diceret: “ Haec mea sunt ;
veteres migrate coloni”. / Nunc victi, tristes, quotiamo Fors omnia versat, / hos illi ( quod
nec bene vertat) mittimus aedos. – Meri / O Licida, siamo arrivati a vivere perché uno straniero / (non
lo avevo mai temuto) divenuto padrone del campicello / dicesse: “ Questo è mio,
andatevene, vecchi coloni”. / E vinti, tristi, poiché tutto è in balia del caso
/ gli rechiamo (ma non gli porti fortuna) questi capretti.
In questa ecloga,
peraltro, c'è il passo che ho già riportato prima in ordine all'esatta
identificazione della località di Andes. Vi è da
dire, tuttavia, che la descrizione appare in contrasto con quella della settima
ecloga, dove il Mincio è il fiume su cui si affacciano prati verosimilmente
pianeggianti e comunque senza l'ombra di colline. Non è improbabile quindi che Vergilius in tal caso sia ricorso un po' alla fantasia dove
forse i colli sono rappresentati dalla maggior altezza della pianura rispetto
al fiume, verso il quale effettivamente ancor oggi scende.
Riporto, comunque, il
brano per intero, perché è di straordinaria bellezza.
Lycidas / Certe equidem
audieram, qua se subducere colles / incipiunt mollique iugum demittere clivo, / usque ad aquam, et veteres,
iam fracta cacumina, fagos, / omnia carmini
bus vestrum servasse Menalcam. – Lìcida / Pure, se non erro, avevo sentito
che di dove i colli / cominciano a inclinarsi e il giogo a digradare in dolce clivo
/ fino all'acqua e ai vetusti faggi, ormai cime / spezzate, Menalca
aveva tutto salvato con il canto.
Menalca è il nostro poeta e l'ultimo verso fa
riferimento a un precedente tentativo di esproprio fallito per l'opera attiva
di Vergilius sia nei confronti delle autorità locali,
sia per l'intercessione dell'amico Alfeno Varo,
governatore della Gallia Cisalpina.
La
decima e ultima ecloga canta l'amore disperato dell'amico
poeta Cornelio Gallo, invaghitosi della liberta Volumnia
(qui Licòri), che passata dalle braccia di Marco
Antonio a quelle di Bruto, e poi appunto a quelle di Gallo, lo ha abbandonato
per unirsi a un militare che partecipava alla spedizione di Agrippa in
Germania. Pare accertato che a questo componimento si sia ispirato il Tasso nell'Aminta.
Nunc insanus
amori duri te Martis in armis / tela inter media atque adversos detinet hostes: / tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum!) / Alpinas, ah, dura, nives ex frigora Rheni / me sine sola vides. Ah, te frigora laedant!
/ ah, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas!
– Ora un amore dissennato ti trattiene fra le armi / del duro Marte, fra i
dardi, di fronte al nemico: / tu lontana dalla patria (ah potessi non
crederlo!), / sola, senza di me, vedi le nevi delle Alpi / e i ghiacci del
Reno. Ah, che il gelo non ti offenda, / e tagliente qual è non ferisca le tue
tenere piante!
E' un'invocazione
disperata dell'amico Gallo, uno strazio di un cuore che non riesce a trovare
pace, riconoscendo che tutto è finito. In questo è evidente la capacità di Vergilius di sondare l'animo umano, di cogliere tutti i
sentimenti, soprattutto quello dell'amore che non risponde alla logica, così
che una volubile Volumnia può far impazzire anche
l'uomo più assennato.
Come ho accennato in
precedenza, le Bucoliche ebbero subito un grande successo, tanto da essere
recitate sulla scena. La fama e anche la novità di quest'opera interessarono a
tal punto che ne furono scritte parodie o addirittura imitazioni.
Rapidamente, con Virgilio
ancora in vita, furono adottate come libro di testo nelle scuole,
congiuntamente alle successive Georgiche.
E anche molto più tardi
influenzarono non poche opere, come l'Orfeo di Poliziano.
Il nostro Vergilius, ormai sulla trentina, come reagì a questa
improvvisa e forse insperata fama?
Sono anni ancora
cruciali, di disordini e di guerre, e lui, sempre restio a schierarsi, forse
decide di giocare le sue carte. Diventato amico di Mecenate conosce Ottaviano e
con ogni probabilità comincia a coltivare con lui quel rapporto di amicizia che
gli consentirà alla nascita dell'impero di trovarsi al posto giusto e nel
momento giusto.
Più tardi scriverà Le georgiche, forse la sua opera più affascinante, un'epica
della vita dei campi, e infine il grande poema, L'Eneide, di cui non poté
conoscere il grandioso successo, perché la morte lo colse improvvisamente a
Brindisi il 21 settembre del 19
a. C. prima ancora che fosse resa pubblica.
Ma che cosa ci lasciano
le Bucoliche, quale è il messaggio sempre attuale di Virgilio?
In periodi di drammi
quotidiani, di scontri belluini, di perdita dei valori la realtà diventa
insopportabile per un mite che è indotto a una scelta quasi obbligata. Se da un
punto di vista materiale è prudente il defilarsi, molto più importante è cosa
mettere in pratica per non morire dentro.
La soluzione proposta dal
grande poeta latino è chiara ed è forse l'unica via percorribile: un dialogo
con il proprio io volto alla continua scoperta di se stessi, un ritorno
all'essenza delle cose e della vita che possiamo trovare anche con
l'osservazione umile della natura che ci circonda.
Gli uomini passano e alla
fine diventano polvere, ma il relazionare spiritualmente con il creato,
ponendoci non al centro di esso, bensì quali ignoti partecipi della vita che
non è solo quella della nostra specie, permette di arrivare gradualmente a un
equilibrio interno che deriva dalla consapevolezza che siamo solo i punti di un
disegno grandioso che non comprendiamo e che probabilmente mai capiremo.
La dolcezza della natura
che ci circonda, la sua apparente semplicità ha la capacità, se la sappiamo
cogliere e vedere, di permearci di una serenità mai conosciuta e il sapere che
non siamo altro che microscopici atomi, anziché incuterci timore, ci mostra
nuovi aspetti dell'esistenza, ci fa sognare un mondo senza più guerre, senza
più prevaricazioni.
E' una ricerca non
semplice, ma quando mai i grandi traguardi vengono raggiunti con facilità?
Vergilius ci ha indicato la strada.
Fonti:
-
Publio Virgilio Marone – Bucoliche – BUR;
-
Publio Virgilio Marone – Georgiche – BUR;
-
Wikipedia;
-
Giulio Cesare – Opera
omnia – Mondadori;
-
Michael Crawford –
Roma nell'età repubblicana – Il Mulino;
-
Augusto Cesare
Ottaviano – Res gestae –
Mondadori;
-
Dante Alighieri – La
Divina Commedia – BUR.