Alicudi:
l’isola senza automobili
di
Piera Maria Chessa
Cinque
anni fa, nel settembre del 2015, trascorsi ad Alicudi una bellissima
vacanza, ospite di cari amici. Una settimana di scoperte, di
bellezza, di amicizia.
Alicudi è una delle isole più
piccole che formano l’arcipelago delle Eolie, ed è la
più occidentale.
Poco distante, si trova Filicudi, ed è
così vicina da poterla vedere. Poi c’è Salina.
Più a sud si trova Lipari, la maggiore, e Vulcano. A nord,
invece, Panarea, la più piccola, e ancora più su,
Stromboli.
Sette isole, una più bella dell’altra, e
ognuna unica, con caratteristiche proprie.
Io ho conosciuto in
particolare Alicudi, e ho avuto modo di visitare Lipari, il
capoluogo.
Alicudi
è stata abitata più tardi, rispetto alle altre isole
dell’arcipelago, sembra infatti che i primi insediamenti
risalgano all’Antica Età del Bronzo (1900-1600 avanti
Cristo).
Nell’isola sono state trovate tracce di
insediamenti relativi anche al periodo greco ( IV secolo avanti
Cristo), di cui rimangono alcuni sarcofagi di lava e oggetti
funerari, ma anche all’occupazione romana (252- 51 a. C.), lo
dimostrano i frammenti di ceramica che sono stati rinvenuti.
E’
interessante l’attuale nome di Alicudi, l’antica Ericusa,
che deriva dalla lingua greca e fa riferimento alla notevole quantità
di erica presente sull’isola. Di origine araba è invece
il nome, in dialetto siciliano, degli abitanti, che si chiamano
Arcudari.
L’isola ha un’area di 5,2 km quadrati e
raggiunge un’altitudine di 675 m. s. l.m. Dal punto di vista
amministrativo appartiene a Lipari, comune della città
metropolitana di Messina. E’ ben collegata con Milazzo tramite
gli aliscafi, e nel periodo estivo anche con Palermo.
Incomincio
col dire che quest’isola mi è piaciuta molto. Mi ha
colpito la sua particolarità, il suo essere in qualche modo
diversa dalle altre, unica.
Mi è stato detto, e credo sia
vero, che quando arrivi sul posto puoi provare due soli sentimenti:
te ne innamori, oppure non la sopporti proprio.
E’ inutile
dire che io l’ho amata, e spero di poterci ancora ritornare.
La
prima cosa che colpisce è il fatto che di tutte le isole
dell’arcipelago sia l’unica nella quale non si può
usare l’automobile. Le auto non circolano proprio. Vi è
infatti un unico lungo tratto pianeggiante, ed è la via che
costeggia il mare.
Per il resto si cammina in verticale, se la
si vuole conoscere, lasciandosi catturare dai colori, i profumi, i
luoghi e le atmosfere.
E per salire si devono affrontare una
quantità infinita di gradini, o per meglio dire, di gradoni,
perché sono piuttosto ampi. Ma ne vale la pena.
Si
incomincia la salita di buona lena, ogni tanto bisogna fermarsi per
riprendere fiato, poi si continua. Non ti sfiora neppure l’idea
di tornare indietro e rinunciare, perché ogni cosa che vedi ti
stupisce.
Si parte dal porto, dove bisogna fare una scelta, si
possono infatti percorrere sentieri diversi che conducono verso
luoghi dai nomi particolari: La tonna, Molino, Pianicello, Filo
dell’Arpa, questo mi è piaciuto tanto, Montagna,
Montagnola, Bazzina, e altri ancora, fino alla cima.
Vi sono due
chiese sull’isola, la prima che si trova lungo il percorso è
la chiesa del Carmine, era chiusa, è stato possibile vederla
solo dall’esterno; l’altra è quella ottocentesca
di San Bartolomeo, più conosciuta come chiesa di San Bartolo,
che rimane ancora più in alto. Ritengo che entrambe vengano
aperte soltanto per le celebrazioni religiose.
Essendo l’isola
un vulcano spento, capita di trovare lungo la strada le
caratteristiche rocce scure formatesi nel tempo con le colate di
lava, assumendo via via delle forme molto particolari.
Sull’isola
vi sono diversi borghi, alcuni abitati dalla gente del luogo, altri
da piccole comunità inglesi o tedesche, che col tempo hanno
poi acquistate le case disabitate decidendo di trascorrere lì
lunghi periodi. Altri, tra questi dei pittori che si sono innamorati
dei paesaggi, e che spesso li hanno riportati sulle loro tele, hanno
deciso di stabilirsi lì in modo definitivo. Qualcuno ha scelto
addirittura di essere sepolto nell’isola.
Il borgo abitato
dalla piccola comunità inglese colpisce per la cura dei
giardini che si intravedono oltre i cancelli delle abitazioni. Anche
intorno a noi, fiori e piante di ogni genere colpiscono il nostro
sguardo.
Nel corso delle passeggiate si possono incontrare dei
muli. Sono loro che, in assenza di automobili, portano su nei vari
abitati vettovaglie di ogni genere. Nel vederli, devo dirlo, a me
hanno fatto pena, pur non sembrandomi particolarmente affaticati,
abituati da sempre a portare sul dorso carichi spesso molto
pesanti.
L’isola ora non è più molto
abitata, i suoi abitanti sono meno di cento, ma si anima naturalmente
con l’inizio della buona stagione grazie al turismo.
Io
che sono arrivata ad Alicudi da turista non ho potuto fare certamente
percorsi troppo difficili, ma c’è chi ritorna nell’isola
tutte le estati, la conosce ormai in buona parte e percorre i
sentieri e le strade in salita come se fosse nata lì. Le belle
passeggiate che comunque ho potuto fare mi hanno permesso di vedere e
apprezzare dei paesaggi che sono difficili da dimenticare, e che a
distanza di qualche anno ricordo ancora perfettamente.
Per certi
versi ho ritrovato ad Alicudi qualcosa in comune con la mia Sardegna.
Vi sono infatti numerose piante di fichi d’India, sparse un po’
ovunque, e anche delle zone aride difficili da coltivare, eppure,
anche lì crescono alcuni tipi di piante molto belle e ogni
pezzetto di verde sembra sorridere. L’uomo si è abituato
da tempo a fare dei piccoli grandi miracoli.
E poi,
d’improvviso, mentre prosegui la salita, senti l’urgenza
di fermarti. Sei magari in un punto abbastanza elevato, guardi sotto
di te e vedi il mare, talvolta con il suo luccichio e i suoi colori,
altre volte al tramonto quando il sole sembra volerti accecare. Ed è
allora che ti convinci di essere nell’isola “che non
c’è”.
Alicudi è anche terra di
capperi. Quante piante intorno a noi, piccoli arbusti che donano vere
e proprie delizie! Così buoni e dal gusto diverso rispetto a
quelli che solitamente acquistiamo nei negozi. La gente del luogo,
poi, è bravissima nel confezionarli, e anche nell’accettare
quello che è un lavoro molto lungo e faticoso: la raccolta.
Che viene fatta spesso sotto il sole.
Come in tutti i luoghi in
cui si vive prevalentemente di turismo, anche ad Alicudi ci sono
alcuni piccoli negozi in cui è facile trovare dei suggestivi
oggetti fatti in maniera artigianale, da portare via al momento della
partenza.
Anch’io ne ho acquistato alcuni, per regalarli e
per tenerli per me. Così, quando avverto un pizzico di
nostalgia, li vado a cercare.
Alicudi è in ugual misura
un borgo di pescatori. Ovunque, sulla spiaggia, costituita non di
sabbia ma di grossi ciottoli scuri dalla forma spesso rotonda, sono
numerose e di tanti colori diversi le barche in attesa di essere
portate al largo. Anche loro un simbolo di questo pezzo di terra
vulcanica.
Una terra speciale, rude ma buona, capace di donarti
tanto. A me rimangono, a distanza di tempo, i colori del suo mare, il
grigio dei suoi gradini che sembrano dirti: ” Non avere paura
di un po’ di fatica, lassù troverai tanta bellezza!”.
E poi la particolarità delle case eoliche, così diverse
dalle nostre, il profumo dei capperi, ma anche la bontà del
pesce e di tante altre leccornìe, tutte preparate con passione
e generosità dalla mia amica Anna.
Alicudi, l’antica
Ericusa, che dei greci porta il ricordo anche nel nome, non si può
dimenticare.
“Uno scoglio, il mio scoglio, la mia isola
che non c’è”, ripete spesso una persona a me molto
cara che lì è nata.
Con queste affettuose parole
per la propria terra, voglio chiudere questo mio ricordo di “un’isola
che per fortuna c’è”.
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