Il
fiore gelido
di
Alessandro Damiani
Edit
– Fiume
Poesia
Pagg.
264
ISBN
9789532301946
Prezzo
Euro 13,00
Un
uomo, la poesia
E’
ben strana la vita, perché il destino (se così vogliamo
chiamarlo) ci impone delle scelte che ci allontano dagli obiettivi
che avevamo ben radicati nella mente ed è stato così
anche per Alessandro Damiani, aspirante guerrigliero che nel lontano
1949 arrivò in Jugoslavia per unirsi ai combattenti comunisti
della guerra civile in Grecia, ma che poi per i giochi di potere che
di continuo tesseva Stalin dovette rinunciare, per fermarsi
definitivamente nello stato retto da Tito. Probabilmente fu un bene,
perché forse come partigiano dell’Esercito Democratico
Greco non sarebbe stato molto valido e invece come civile dedito alla
letteratura e al giornalismo seppe dare il meglio di sé.
Eclettico, tanto che scrisse articoli, saggi, commedie, romanzi e
poesie, fu un faro per la Comunità Italiana di quel paese, di
cui ha cercato di salvaguardare lo spirito e la cultura. Già
l’avevo conosciuto leggendo un suo romanzo Ed ebbero la
luna, un ibrido fra narrativa e saggistica storica, ma nulla
mi era noto della sua attività poetica, fino a quando suo
figlio Sandro mi ha parlato di Il fiore gelido, una
corposa raccolta di liriche.
Sono
sincero e confesso che quando mi trovo davanti a una silloge
costituita da molte poesie ho un timore reverenziale nei confronti
della stessa, al punto che rinvio di continuo l’inizio della
lettura, poi però mi decido, perché nasce in me un
obbligo morale nei confronti di chi ha scritto questi versi. Complice
soprattutto il caldo torrido ho preso in mano il libro solo al primo
accenno di rinfrescamento, titubante in verità, intimorito da
quelle poesie che a prima vista mi sono sembrate di grande lunghezza.
Ma non è la dimensione ciò che conta, perché
quel che caratterizza e dona valore a un’opera sono i contenuti
e la forma e in questo caso ci sono entrambi. Premetto che la
raccolta non è monotematica, ci sono diversi argomenti, direi
uno sguardo, disincantato, su come va il mondo, con una visione che,
nonostante la formazione politica, si può considerare nel
complesso oggettiva. Così troviamo grandi temi, come la guerra
e la pace, ma anche aspetti più semplici, osservazioni di
costume, dediche ad altri poeti (Pasolini) e anche dissertazioni
sulla poesia, sul suo senso, sull’opportunità che
resista, nonostante ogni tentativo di relegarla in soffitta. Non c’è
una malinconia di fondo, anzi ho ravvisato un’ironia, benefica,
anche nel caso degli Epicedi, pescando dalla tradizione greca dei
canti funebri, una sorta di pre-epigrafi in cui si rivela tutta la
filosofia dell’autore nei confronti dei grandi temi
dell’esistenza. E per finire c’è una sezione che,
nonostante il nome (Post scriptum) non è qualcosa che è
venuto in mente a opera conclusa, perché in effetti è
la fine e il fine dell’opera stessa, una confessione, o anche
un testamento, comunque un lascito, questo sì malinconico come
può esserlo un commiato in cui si ripresenta tutta la propria
esistenza; inoltre c’è l’amara constatazione che
il tempo sta per finire, con un mesto rimpianto per gli inevitabili
errori che non si possono più correggere e che si vorrebbe non
aver mai commesso. E’ forse la parte che mi è piaciuta
di più, che avverto più in sintonia con ciò che
provo in questa ultima stagione, tanto che il gradimento si è
unito a una incontrollabile commozione. Ci sono altre tematiche, ma
non vado oltre, sia per ragioni di spazio che di tempo (meriterebbero
tutte un discorso approfondito, e in tal caso occorrerebbe scrivere
un corposo saggio), ma farei un torto all’autore se mi dovessi
fermare qui, perché è d’obbligo evidenziare lo
stile, anche se magari solo con un cenno. Uomo del secolo trascorso,
così fecondo di rinnovamenti poetici, Alessandro Damiani parte
da una base classica e costruisce sulla stessa - grazie al frutto
degli studi effettuati e con influssi magari di Leopardi, Pascoli,
pure di Ungaretti, ma nei contemporanei soprattutto di Montale –
una sua ben precisa poetica, una costruzione armonica personale che
dona ritmo ed equilibrio a liriche anche di consistente lunghezza.
Del resto tutto quello che siamo culturalmente è frutto del
pensiero di chi ci ha preceduto e che abbiamo studiato; Damiani non è
diverso, ma è riuscito a darsi uno stile che è una
sintesi di voci e correnti non solo dello scorso secolo, ma anche
precedenti. Talora ho addirittura riscontrato un accenno petrarchesco
con delle sfumature e dei rimandi che, secondo me, ricordano anche
Guido Cavalcanti. Non c’è nulla invece di D’Annunzio,
perché l’autore non ama sprecare parole, parole che
devono essere un mezzo e non un fine, e proprio per questo D’Annunzio
viene escluso. E così è tutto un fiorire, non casuale,
di novenari e soprattutto di settenari, formula questa certamente
non facile, ma di grande effetto. La rima? La rima non è
ricercata, meglio le assonanze, le rime eventualmente interne,
insomma la parola è certamente il mezzo, ma non è per
niente trascurata, anzi…
Giunto
al termine della lettura, invero appagante, credo che Alessandro
Damiani nella sua poliedricità sia riuscito a privilegiare la
poesia, una poesia forse non semplice, ma certamente di notevole
qualità, sia per contenuti che per stile.
Alessandro
Damiani (Sant’Andrea
Apostolo dello Ionio, 26 agosto 1928 – Fiume, 17 ottobre 2015)
è stato un giornalista e scrittore della Comunità
Nazionale Italiana in Croazia. Gli esordi giornalistici del
Damiani risalgono al 1946 quando, diciottenne, collabora con Umanità
Nova,
l'organo dell'Anarchia italiana.
Arriva
in Jugoslavia nell'estate
del 1948 con
un gruppo di giovani volontari italiani, coll'intento di unirsi alla
guerriglia comunista nella guerra
civile greca,
appoggiata dalla Jugoslavia di Tito.
A
seguito della rottura tra Tito e Stalin,
la Jugoslavia chiude però i confini con tutto l'est europeo e
toglie il proprio appoggio all'DSE (Esercito
Democratico Greco), guidato dal comandante Vafiadis: quest'ultimo
venne arrestato a Mosca, ed il suo posto venne preso del generale
Zachariadis. La maggior parte delle migliaia di giovani volontari
confluiti da ogni parte d'Europa ritorna quindi nei rispettivi Paesi,
salvo un'aliquota di essi che venne perseguitata
dai titoisti jugoslavi.
Alcune centinaia divengono invece dei sostenitori del dittatore e
rimangono in Jugoslavia. Vi rimane pure il ventenne Damiani, che si
stabilisce a Fiume e
nel 1948,
entra nella compagnia di prosa del Dramma
Italiano[1],
dove conosce Piero
Rismondo,
all'epoca direttore e regista del complesso teatrale ed in seguito
tornato in Austria,
da dove era fuggito durante la guerra.
Nel 1950 Damiani
sposa Olga Stancich (nata Stančić, nel 1916, nella Fiume
ungherese), già cantante e doppiatrice di Marlene Dietrich.
Nel 1957,
deluso dall'esperienza jugoslava, fa ritorno in Italia.
Dopo
nove anni trascorsi nel mondo del giornalismo[2],
questa volta deluso dall'Italia se ne torna definitivamente in
Jugoslavia coll'intento di contribuire alla salvaguardia del
patrimonio linguistico-culturale italiano nell'area istro-quarnerina.
Abbraccia le posizioni di Eros
Sequi,
secondo cui - a fronte delle pressioni nazionaliste panslave,
sostituitesi ben presto nella Jugoslavia di Tito, agli ideali del
socialismo, ed in assenza di adeguate attenzioni da parte dell'Italia
- "bisogna salvare il salvabile", per evitare che del
retaggio italiano nell'area non rimangano che vaghi ricordi.
Redattore
del periodico Panorama e
del quotidiano La
Voce del Popolo,
insegnerà giornalismo alla Facoltà di Italianistica di
Pola dell'Ateneo fiumano e alla Scuola media superiore italiana di
Fiume. Collabora con Tv-Capodistria e col mensile fondato da Pietro
Calamandrei, "Il Ponte", di Firenze.
Pubblica
saggi e libri sulla cultura italiana dell'Istria e di Fiume, romanzi,
commedie, varie antologie di poesie.
Gran
parte dei suoi lavori sono tradotti in croato ed alcuni anche in
sloveno.
1^ Il
Sandro Damiani che negli anni Novanta/Duemila sarà direttore
della compagnia è suo figlio.
2^ Tra
gli altri, collaborerà con Il
Pensiero Nazionale diretto
da Stanis
Ruinas.
Fonte
Wikipedia
Renzo
Montagnoli
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