Sono ormai ventidue anni che immancabilmente ci si
trova tutti la sera del 10 giugno per una cena
conviviale e ora sono per l'appunto le 20,00 del 10 giugno 2005.
Sono arrivato per primo al ristorante e,
sgranocchiando un grissino, attendo gli altri tre.
Siamo amici dall'infanzia, cresciuti insieme come
fratelli, gli stessi studi, ultimati i quali, con l'approccio al mondo del
lavoro, le frequentazioni si sono diradate. Ci si ritrovava un paio di volte
ogni anno fino a quel tragico 10 giugno del 1983 quando
ci giunse la notizia che, da 5 eravamo diventati 4. Me lo comunicò per telefono
Massimo, con la voce rotta dalla commozione – Scusa il mio tono, ma da oggi
Franco non è più fra noi.
- Ma che è successo?
- L'ha trovato la moglie, si è impiccato.
Franco era il più chiuso del gruppo; in lui c'era
una naturale riservatezza, un pudore che lo portava ad arrossire
quando noi si parlava di sesso, tanto che disperavamo che riuscisse a
trovare una ragazza, e invece la trovò, e veramente bella, esuberante, in netto
contrasto con il suo carattere. Arrivò al matrimonio dopo un brevissimo
fidanzamento e Franco sembrava toccare il cielo. Poco dopo il ritorno dal
viaggio di nozze, cominciarono a circolare le voci, dapprima accenni velati,
poi quasi clamori: insomma, la sposina lo tradiva.
E Franco iniziò macerarsi, ad apparire sempre meno
in pubblico, chiuso in un doloroso mutismo che, quando gli parve
insopportabile, lo indusse a compiere l'ultimo, estremo passo.
In quella dolorosa circostanza noi quattro amici ci
ripromettemmo di ritrovarci almeno per una cena di commemorazione il 10 giugno di ogni
anno e l'impegno, fino ad ora, è sempre stato rigorosamente mantenuto.
Io, come al solito, sono
in leggero anticipo e osservo gli altri commensali: una famigliola con due bambini,
una coppia di fidanzati, almeno così mi sembrano con gli occhi più attenti per
i loro volti che per le pietanze, un gruppo di anziani festosi, un singolo
tutto solo che, come me, si guarda all'intorno.
Ecco che arriva Massimo,
sempre più corpulento, i capelli tinti di nero, una larga camicia fiori su un
paio di pantaloni violetti; è l'unico che non si è sposato, ma è più che logico
con quelle particolari tendenze un po' soffocate in gioventù, ma che poi sono
esplose da adulto; si dice che adesso conviva con un giovane, ma non ho voluto
indagare, e, tanto meno, approfondire con lui per paura di ferirlo, di
rinfacciargli una diversità di cui non ha colpa. Tutti sappiamo, ma
quando c'è anche Massimo non si tocca mai questo
argomento, nemmeno nelle barzellette che inevitabilmente fanno parte del menù
della cena.
- Ciao Giovanni, sei sempre il primo, in tutto. Ti
ricordi a scuola? Anche là eri il primo, il primo della classe.
Chissà perché questa frase ricorre spesso nei
nostri incontri; me lo sono chiesto più volte senza arrivare ad una
giustificazione logica, se non in un latente senso di invidia per chi, nella
classe, primo non era.
- Ciao Massimo, mi sembri un attore. Gli anni
passano per tutti, ma non per te.
- Adulatore… Cerco di tenermi su, di invecchiare il
meno possibile, però, nonostante i sacrifici delle diete, mi appesantisco
sempre di più.
- Ginnastica, movimento, un po' di bicicletta, del
nuoto, e i risultati si vedrebbero, come nel mio caso.
- Vero, sei splendido.
Dovrei essere contento di un simile apprezzamento,
ma è solo un convenevole, perché, nonostante il moto, avverto l'invecchiamento,
la fatica del lavoro che ogni giorno si acuisce e stride con il ricordo della
lontana gioventù.
- Salve, ragazzi. – Sono arrivati Carlo e Umberto,
due che, se fossero nati rispettivamente uomo e donna, si sarebbero di certo
sposati, e non per tendenze particolari, in loro inesistenti, ma per la
comunione di intenti, di opinioni, che ha permesso di frequentarsi con una certa
assiduità anche dopo i matrimoni. Dico matrimoni al plurale, perché entrambi
hanno a suo tempo divorziato, per poi risposarsi nuovamente, senza tuttavia
essere contenti delle scelte fatte.
- A tavola, che ho fame da lupo. – Carlo si agita,
sempre a voce alta, come non dovesse discutere, ma
leggere un proclama. E' sempre stato così: con il tono forte si sente più
importante e accresce la fiducia in sé, come se ne avesse bisogno, lui che del
gruppo è quello che è arrivato nella vita ad una posizione più elevata e
maggiormente remunerativa.
Umberto è sempre stato poco loquace e quando parla
Carlo normalmente si limita ad annuire, e in genere è sempre d'accordo, quasi
che uno fosse il cavaliere e l'altro il suo scudiero. Ogni iniziativa parte da
Carlo e Umberto subito si accoda; quel che è incredibile è che lui, pur non del
tutto insoddisfatto della moglie, abbia deciso di divorziare dopo lo stesso
passo compiuto dall'altro e il lasso di tempo intercorso fra i due successivi
matrimoni è stato altrettanto breve, anche perchè, neanche a farlo apposta,
hanno sposato due sorelle.
La scelta del menù è rapidissima, demandata
peraltro a Carlo, a cui, per turno, è demandato anche
l'onere di pagare il conto.
L'antipasto di salumi misti e di sottaceti viene divorato in un baleno, nel silenzio più assoluto;
arriviamo poi ai primi, un bel tris di agnolotti, tortelli con la zucca e
tagliatelle con i funghi. Già il vino comincia a scemare e forse anche per
questo la conversazione ha inizio. Chiamarla conversazione è un eufemismo,
perché è tutta una serie di monologhi, dove, più che ascoltare, quel che conta
è parlare. Comincia il solito Carlo e non sono mai riuscito a capire come
faccia a masticare e parlare contemporaneamente. Il discorso, nella sostanza,
non è dissimile da quello dell'anno precedente, anzi di tutti gli altri anni. I
valori della famiglia, della religione, del lavoro sono ricorrenti e sembra più
che mai il comizio di un politico. Quando termina, attende quasi trepidante
l'applauso, ma tranne un cenno di capo, a mo' di consenso, di Umberto, la
platea non recepisce, anzi ne approfitta subito Massimo per dire la sua. I temi
sono diversi da quelli del precedente monologo, ma anche loro ripetitivi e
sentiti in altre occasioni: la musica, di cui è un grande appassionato, la
stagione lirica all'Arena di Verona, i prezzi sempre più insostenibili degli
oggetti di abbigliamento. Si va avanti così, con Carlo e Massimo che si
alternano nei monologhi, con bis del tris di primi, con i secondi che per me
sono già troppi, ma tanto paga Carlo…
Dopo il dolce e il caffé
si arriva al bicchierino ed è allora che la tradizione assume i contorni più
vivi: è d'obbligo ricordare perché ci siamo trovati. Sempre per turno la
commemorazione dell'amico scomparso oggi spetta a me e, nell'imbarazzo fra
tenere un monologo che ne tracciasse delle improbabili
eccelse qualità e adottare una via
indiretta, ma più semplice, ho pensato bene, anzi direi male, di scrivere una
poesia dedicata all'ospite forzatamente assente.
Ammetto che non è uno dei miei parti migliori, che
l'onda emozionale del fatto si è ormai assopita, ma con un po' di mestiere ho
abbozzato quattro versi.
Prendo il foglio e comincio a leggere.
“ Lontano è il ricordo della tua immagine,
nel tempo affievolito, ma
sempre resterà
il rimpianto di non averti
questa sera con noi.
Caro amico, l'unica cosa che temo è che
tu ora possa essere
finalmente felice,
senza dolore, senza angosce,
senza tradimenti.”
E' retorica, non c'è dubbio, ma, per effetto anche del
vino, strappo un applauso e c'è anche chi, come Massimo, versa una
lacrima. Ed ecco che, all'improvviso, tutti ammutoliamo e
si fa un'atmosfera greve. Effetto dell'infelice poesia, delle libagioni o della
stanchezza?
Guardo Carlo: se ne sta assorto, lo sguardo vuoto,
lui sempre così pirotecnico che sente la forza del successo raggiunto, ma che
deve fare i conti con un figlio drogato, con una seconda moglie che ama solo i
suoi soldi e in pratica con la solitudine del suo animo che lo spinge ogni tanto
a cercare avventure a pagamento.
E che dire di Umberto, sottomesso per vocazione,
incapace di affrontare una realtà che lo vede sempre al seguito di qualcuno più
forte, più maturo, e che quando va a casa deve fare i conti con una moglie
talmente bigotta che continua a spogliarsi al buio; gli rimarrebbe la
soddisfazione dei figli, ma se due si sono laureati, sono occupati e hanno
messo su famiglia, dell'altro non si hanno più notizie da anni, da quando, una mattina, è uscito di casa dicendo ai genitori
“ perché mi avete messo al mondo?”.
Massimo, nonostante la sua diversità, appare il più
realizzato: lavora in un atelier come stilista, si dice che vada d'accordo con
il suo giovane amico e nel complesso sembra accettarsi per quel che è.
Sicuramente anche lui avrebbe qualcosa da recriminare, ma di certo non tutto.
Il bello è che pensando ai problemi dei miei tre
amici ho quasi dimenticato i miei, che non sono da
poco. Da giovane sognavo di fare lo
scrittore, ma sono diventato un semplice giornalista di un quotidiano locale,
uno scribacchino della cronaca che ogni tanto si diletta
a scrivere poesie che non piacciono nemmeno a me; sono sposato da quasi
venticinque anni, un matrimonio felice agli inizi, diventato a poco a poco
un'abitudine che, più passano gli anni, né io, né mia moglie riusciamo più a
sopportare; ho un figlio, o meglio ho un parassita, che non ha mai avuto voglia
di studiare e tanto meno di lavorare, e che si fa mantenere, che spende e
spande senza nemmeno avere l'idea di come impostare il suo futuro.
Ecco perché siamo muti e non di certo per la
commozione provocata dal ricordo dell'amico scomparso.
Ci alziamo dal tavolo e usciamo; ci salutiamo
promettendoci di ritrovarci il 10 giugno del prossimo anno.
Carlo, nell'accomiatarsi, grida – Ah, che cena,
ragazzi! Una mangiata da far paura, ma che dico…, una vera e propria abbuffata.
E ha ragione, perché l'unica parte di noi che è
piena, che è
soddisfatta, è lo stomaco.