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  Racconti  »  Narrativa generica  »  L'abbuffata 01/02/2006
 

Sono ormai ventidue anni che immancabilmente ci si trova tutti la sera del 10 giugno per una cena conviviale e ora sono per l'appunto le 20,00 del 10 giugno 2005.

Sono arrivato per primo al ristorante e, sgranocchiando un grissino, attendo gli altri tre.

Siamo amici dall'infanzia, cresciuti insieme come fratelli, gli stessi studi, ultimati i quali, con l'approccio al mondo del lavoro, le frequentazioni si sono diradate. Ci si ritrovava un paio di volte ogni anno fino a quel tragico 10 giugno del 1983 quando ci giunse la notizia che, da 5 eravamo diventati 4. Me lo comunicò per telefono Massimo, con la voce rotta dalla commozione – Scusa il mio tono, ma da oggi Franco non è più fra noi.

- Ma che è successo?

- L'ha trovato la moglie, si è impiccato.

Franco era il più chiuso del gruppo; in lui c'era una naturale riservatezza, un pudore che lo portava ad arrossire quando noi si parlava di sesso, tanto che disperavamo che riuscisse a trovare una ragazza, e invece la trovò, e veramente bella, esuberante, in netto contrasto con il suo carattere. Arrivò al matrimonio dopo un brevissimo fidanzamento e Franco sembrava toccare il cielo. Poco dopo il ritorno dal viaggio di nozze, cominciarono a circolare le voci, dapprima accenni velati, poi quasi clamori: insomma, la sposina lo tradiva.

E Franco iniziò macerarsi, ad apparire sempre meno in pubblico, chiuso in un doloroso mutismo che, quando gli parve insopportabile, lo indusse a compiere l'ultimo, estremo passo.

In quella dolorosa circostanza noi quattro amici ci ripromettemmo di ritrovarci almeno per una cena  di commemorazione il 10 giugno di ogni anno e l'impegno, fino ad ora, è sempre stato rigorosamente mantenuto.

Io, come al solito, sono in leggero anticipo e osservo gli altri commensali: una famigliola con due bambini, una coppia di fidanzati, almeno così mi sembrano con gli occhi più attenti per i loro volti che per le pietanze, un gruppo di anziani festosi, un singolo tutto solo che, come me, si guarda all'intorno.

Ecco che arriva Massimo, sempre più corpulento, i capelli tinti di nero, una larga camicia fiori su un paio di pantaloni violetti; è l'unico che non si è sposato, ma è più che logico con quelle particolari tendenze un po' soffocate in gioventù, ma che poi sono esplose da adulto; si dice che adesso conviva con un giovane, ma non ho voluto indagare, e, tanto meno, approfondire con lui per paura di ferirlo, di rinfacciargli una diversità di cui non ha colpa. Tutti sappiamo, ma quando c'è anche Massimo non si tocca mai questo argomento, nemmeno nelle barzellette che inevitabilmente fanno parte del menù della cena.

- Ciao Giovanni, sei sempre il primo, in tutto. Ti ricordi a scuola? Anche là eri il primo, il primo della classe.  

Chissà perché questa frase ricorre spesso nei nostri incontri; me lo sono chiesto più volte senza arrivare ad una giustificazione logica, se non in un latente senso di invidia per chi, nella classe, primo non era.

- Ciao Massimo, mi sembri un attore. Gli anni passano per tutti, ma non per te.

- Adulatore… Cerco di tenermi su, di invecchiare il meno possibile, però, nonostante i sacrifici delle diete, mi appesantisco sempre di più.

- Ginnastica, movimento, un po' di bicicletta, del nuoto, e i risultati si vedrebbero, come nel mio caso.

- Vero, sei splendido.

Dovrei essere contento di un simile apprezzamento, ma è solo un convenevole, perché, nonostante il moto, avverto l'invecchiamento, la fatica del lavoro che ogni giorno si acuisce e stride con il ricordo della lontana gioventù.

- Salve, ragazzi. – Sono arrivati Carlo e Umberto, due che, se fossero nati rispettivamente uomo e donna, si sarebbero di certo sposati, e non per tendenze particolari, in loro inesistenti, ma per la comunione di intenti, di opinioni, che ha permesso  di frequentarsi con una certa assiduità anche dopo i matrimoni. Dico matrimoni al plurale, perché entrambi hanno a suo tempo divorziato, per poi risposarsi nuovamente, senza tuttavia essere contenti delle scelte fatte.

- A tavola, che ho fame da lupo. – Carlo si agita, sempre a voce alta, come non dovesse discutere, ma leggere un proclama. E' sempre stato così: con il tono forte si sente più importante e accresce la fiducia in sé, come se ne avesse bisogno, lui che del gruppo è quello che è arrivato nella vita ad una posizione più elevata e maggiormente remunerativa.

Umberto è sempre stato poco loquace e quando parla Carlo normalmente si limita ad annuire, e in genere è sempre d'accordo, quasi che uno fosse il cavaliere e l'altro il suo scudiero. Ogni iniziativa parte da Carlo e Umberto subito si accoda; quel che è incredibile è che lui, pur non del tutto insoddisfatto della moglie, abbia deciso di divorziare dopo lo stesso passo compiuto dall'altro e il lasso di tempo intercorso fra i due successivi matrimoni è stato altrettanto breve, anche perchè, neanche a farlo apposta, hanno sposato due sorelle.   

La scelta del menù è rapidissima, demandata peraltro a Carlo, a cui, per turno, è demandato anche l'onere di pagare il conto.

L'antipasto di salumi misti e di sottaceti viene divorato in un baleno, nel silenzio più assoluto; arriviamo poi ai primi, un bel tris di agnolotti, tortelli con la zucca e tagliatelle con i funghi. Già il vino comincia a scemare e forse anche per questo la conversazione ha inizio. Chiamarla conversazione è un eufemismo, perché è tutta una serie di monologhi, dove, più che ascoltare, quel che conta è parlare. Comincia il solito Carlo e non sono mai riuscito a capire come faccia a masticare e parlare contemporaneamente. Il discorso, nella sostanza, non è dissimile da quello dell'anno precedente, anzi di tutti gli altri anni. I valori della famiglia, della religione, del lavoro sono ricorrenti e sembra più che mai il comizio di un politico. Quando termina, attende quasi trepidante l'applauso, ma tranne un cenno di capo, a mo' di consenso, di Umberto, la platea non recepisce, anzi ne approfitta subito Massimo per dire la sua. I temi sono diversi da quelli del precedente monologo, ma anche loro ripetitivi e sentiti in altre occasioni: la musica, di cui è un grande appassionato, la stagione lirica all'Arena di Verona, i prezzi sempre più insostenibili degli oggetti di abbigliamento. Si va avanti così, con Carlo e Massimo che si alternano nei monologhi, con bis del tris di primi, con i secondi che per me sono già troppi, ma tanto paga Carlo…

Dopo il dolce e il caffé si arriva al bicchierino ed è allora che la tradizione assume i contorni più vivi: è d'obbligo ricordare perché ci siamo trovati. Sempre per turno la commemorazione dell'amico scomparso oggi spetta a me e, nell'imbarazzo fra tenere un monologo che ne tracciasse delle improbabili eccelse qualità e  adottare una via indiretta, ma più semplice, ho pensato bene, anzi direi male, di scrivere una poesia dedicata all'ospite forzatamente assente.

Ammetto che non è uno dei miei parti migliori, che l'onda emozionale del fatto si è ormai assopita, ma con un po' di mestiere ho abbozzato quattro versi.

Prendo il foglio e comincio a leggere.

“ Lontano è il ricordo della tua immagine,

nel tempo affievolito, ma sempre resterà

il rimpianto di non averti questa sera con noi.

Caro amico, l'unica cosa che temo è che

tu ora possa essere finalmente felice,

senza dolore, senza angosce, senza tradimenti.”

E' retorica, non c'è dubbio, ma, per effetto anche del vino, strappo un applauso e c'è anche chi, come Massimo, versa una lacrima.  Ed ecco che, all'improvviso,  tutti ammutoliamo e si fa un'atmosfera greve. Effetto dell'infelice poesia, delle libagioni o della stanchezza?

Guardo Carlo: se ne sta assorto, lo sguardo vuoto, lui sempre così pirotecnico che sente la forza del successo raggiunto, ma che deve fare i conti con un figlio drogato, con una seconda moglie che ama solo i suoi soldi e in pratica con la solitudine del suo animo che lo spinge ogni tanto a cercare avventure a pagamento.

E che dire di Umberto, sottomesso per vocazione, incapace di affrontare una realtà che lo vede sempre al seguito di qualcuno più forte, più maturo, e che quando va a casa deve fare i conti con una moglie talmente bigotta che continua a spogliarsi al buio; gli rimarrebbe la soddisfazione dei figli, ma se due si sono laureati, sono occupati e hanno messo su famiglia, dell'altro non si hanno più notizie da anni, da quando, una mattina, è uscito di casa dicendo ai genitori “ perché mi avete messo al mondo?”.

Massimo, nonostante la sua diversità, appare il più realizzato: lavora in un atelier come stilista, si dice che vada d'accordo con il suo giovane amico e nel complesso sembra accettarsi per quel che è. Sicuramente anche lui avrebbe qualcosa da recriminare, ma di certo non tutto.

Il bello è che pensando ai problemi dei miei tre amici ho quasi dimenticato i miei, che non sono da poco.  Da giovane sognavo di fare lo scrittore, ma sono diventato un semplice giornalista di un quotidiano locale, uno scribacchino della cronaca che ogni tanto si diletta a scrivere poesie che non piacciono nemmeno a me; sono sposato da quasi venticinque anni, un matrimonio felice agli inizi, diventato a poco a poco un'abitudine che, più passano gli anni, né io, né mia moglie riusciamo più a sopportare; ho un figlio, o meglio ho un parassita, che non ha mai avuto voglia di studiare e tanto meno di lavorare, e che si fa mantenere, che spende e spande senza nemmeno avere l'idea di come impostare il suo futuro.

Ecco perché siamo muti e non di certo per la commozione provocata dal ricordo dell'amico scomparso.

Ci alziamo dal tavolo e usciamo; ci salutiamo promettendoci di ritrovarci il 10 giugno del prossimo anno.

Carlo, nell'accomiatarsi, grida – Ah, che cena, ragazzi! Una mangiata da far paura, ma che dico…, una vera e propria abbuffata.

E ha ragione, perché l'unica parte di noi che è piena,  che è soddisfatta, è lo stomaco.  

 

 

 
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