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  Racconti  »  Narrativa generica  »  Il sogno del fauno 01/12/2019
 
Il sogno del fauno

di Renzo Montagnoli



A volte accadono fatti che appaiono del tutto inspiegabili, misteri che ci attirano, ma possono anche sconvolgerci. Ricordo di un sogno di una notte di tanti anni fa, nulla di particolare se non fosse per quanto mi accingo a raccontare.

Non ho memoria se fosse estate o inverno, ma propendo per la seconda stagione, giacché con la calura le mie notti sono sempre state spezzate, puntate di sonno e altrettante di veglia. Non intendo però dilungarmi oltre e preferisco passare direttamente a questo strano sogno.

Anche lì era notte, ma non buia, perché in cielo splendeva una pacioccosa luna piena, ogni tanto coperta da qualche capricciosa nuvoletta; procedevo lungo una strada sconosciuta, anzi meglio ancora passeggiavo, anche se in me una forza oscura guidava i miei passi. Camminavo in campagna, con ai lati file di alberi di cui indovinavo solo i contorni. Era quello che si potrebbe definire un viale, lungo, dal selciato dissestato e di cui intravvedevo a stento la fine, sbarrato com’era da un cancello. Rammento che allungai la falcata e in breve, più velocemente di quanto potessi pensare – ma si sa che in sogno tutto è possibile – arrivai a quella chiusura in ferro, due ante di metallo dall’aria antica e assai ben lavorate. Ne spinsi una e il cancello si spalancò su un giardino, ma data la grandezza e gli alberi di alto fusto era più probabilmente un parco e proseguii lungo un sentiero ben battuto, mosso da un’arcana forza che mi imponeva di sapere. Attraversai altri sentieri, vialetti coperti da finissima ghiaia, scivolai sotto rami protesi e infine giunsi là, a una piazzetta, con in mezzo quella che a prima vista mi sembrò una fontana e che invece, pur rivelandosi tale, aveva dimensioni ben superiori, quasi quelle di una, se pur piccola, piscina. Da un fauno troneggiante in mezzo scendeva un getto d’acqua che sotto s’infrangeva su una marmorea sirena. All’intorno, altra acqua, e un coro di ninfee, una cornice che esaltava la bellezza delle forme delle due statue. Le guardai a lungo, mi piacevano, l’artista che le aveva scolpite sembrava aver trasfuso in loro la sua anima. Nel mentre nell’ombra osservavo, la luna, fino ad allora coperta da una nuvoletta, s’affacciò e la sua luce cadde improvvisa ed eterea su quell’elegiaco quadretto. Fu allora che vidi quello che non poteva che essere un sogno: il fauno, irrigidito dai secoli nella pietra scolpita, si contrasse, le giunture scricchiolarono, insomma si animò e lo stesso accadde per la sirena, la cui rigidità si sciolse nella tenera mollezza di una femmina che rinasceva in quel momento. Di sottofondo il rumore dell’acqua che cadeva divenne le note di un flauto di Pan, una melodia che s’ispirava ad amori lontani, a passioni mai sopite, a desideri irrealizzati. Si capiva chiaramente che il fauno avrebbe voluto toccare, magari accarezzare il corpo seducente di quella sirena, un desiderio forse in essere da tempo immemore e che ora, con la magica complicità della luce della luna, poteva realizzare. Si piegò verso di lei, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a raggiungerla, nonostante che lei si inarcasse, cercasse di andargli incontro. Ecco, le mani di entrambi protese a sfiorarsi, quel tocco da tanto atteso, gli sforzi di lui sempre più esasperati, forse un grido lacerante e il fauno si spezzò. I piedi, fino alle caviglie, restarono sul basamento, ma il resto del corpo precipitò a toccare l’oggetto del suo desiderio. La luna si era di nuovo coperta e restarono solo pezzi di marmo, braccia, gambe e anche la testina a coprire la sirena, pure lei in frantumi.

Forse il sogno proseguì, ma non ne ebbi memoria e solo la mattina, al mio risveglio, potei vedere ciò che negli antri oscuri della mente la notte aveva scolpito.

Non ne feci parola con altri, e neppure ne accennai a mia moglie, forse timoroso di avere un’interpretazione stramba o comunque inverosimile; ricordo invece che tentai a lungo di comprendere il suo significato, ma inutilmente, tanto che alla fine preferii desistere e poco a poco dimenticai anche il sogno.

Passarono gli anni, fra dolori e anche gioie, e finii con l’arrivare a oggi, alla mia ultima stagione, avara di speranze, ma satura di certezze. Come tutti gli anziani tendo a passeggiare, portando a spasso il cane, o meglio penso che sia lui che mi porti in giro. Le stesse strade alla lunga stancano e allora ieri ho preso l’auto e ho deciso di spostarmi di qualche chilometro, fino a un parcheggio, da cui parte un bel viale. Così ho fatto e, liberato dal guinzaglio il cane, ci siamo incamminati lungo quella strada ombreggiata da due filari di pioppi. Dopo aver percorso un centinaio di metri mi sono accorto che la strada, più avanti, era chiusa da un cancello, a cui man mano mi avvicinavo facevano eco i palpiti accelerati del mio cuore. Fra me dicevo: “Non è possibile, è come nel sogno, di cui di colpo m’è tornata la memoria, o forse sono io che voglio vedere così, senza sapere nemmeno il perché”. Ho spinto un’anta e la chiusura si è spalancata su un parco secolare, da tanto tempo probabilmente abbandonato; lungo il sentiero che ho percorso ne ho incrociati altri e ho affrettato il passo, benché timoroso di avere conferma in quel che avrei trovato. Ecco là la piazzetta e in mezzo la fontana che non butta più acqua; ho rallentato, il cuore sembrava scoppiarmi, a piccoli passi mi sono avvicinato: fra erbacce e muschio un cumulo di pietre spezzate ricopriva in parte qualche cosa, un tronco forse; lo sguardo ha indugiato ancora un po’ e si è bloccato sulla coda di una sirena. Tremavo, perché ora sapevo, sapevo ciò che quel sogno di tanti anni fa mi ha inteso dire e che del resto solo ora, in questa mia vecchiaia, avrei potuto capire: si lotta tanto, si cerca il senso di una vita e quando l’hai trovato, quando stai per coglierlo non c’è più tempo.

Mi è rimasto un timore: che anche questo di ieri sia stato un sogno, a occhi aperti, ma non ho qualcuno a cui chiedere conforto, se non il mio cane, che c’era, ma che se ha capito non potrà mai parlare.

 
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