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  Racconti  »  Narrativa generica  »  L'ultimo treno 25/02/2006
 

Camminava lentamente, la schiena incurvata, i piedi striscianti sull'acciottolato, il capo chino; quella strada che percorreva ogni giorno da chissà quanto tempo sembrava diventare sempre più lunga. Arrivato di fronte ad un edificio scalcinato, con i vetri rotti alle finestre, le grondaie cadenti, si fermò ed alzò gli occhi: scolorito dal tempo sulla facciata c'era un cartello. Non vedeva quasi più, ma a memoria sapeva quello che c'era scritto, e poi quante volte era stato lì, tante che neppure se le ricordava. Con un ultimo sforzo varcò il portone divelto della stazione ferroviaria e raggiunti i binari si lasciò cadere su una panchina; stropicciò gli occhi e guardò le rotaie arrugginite: sarebbe arrivato oggi, o avrebbe dovuto ancora aspettare?

Richiuse gli occhi e ripensò a se stesso; era da anni che attendeva quel treno che non arrivava mai. A poco a poco la cittadina si era spopolata ed era rimasto solo lui; non c'era più la luce, non funzionava neppure il gas ed ormai i suoi pasti erano costituiti dalle radici del giardino; all'inizio aveva dovuto contenderle agli animali, ma poi anche questi erano spariti. Nulla di nuovo da vedere: solo case che l'inclemenza del tempo lentamente sgretolava ed era anche quella una ragione valida per trascorrere la giornata in stazione, in un'attesa che non sembrava avere mai fine.

Sdraiato sulla panchina ripensava al passato, tanto lontano al punto che dubitava che fosse esistito.

Si rivide così l'immagine di un giovane snello e fiero il giorno della visita di leva, il suo primo contatto da adulto con il mondo degli adulti; correva l'anno 1910 e  venne fatto  abile. Si concluse tutto in un giorno, ma si sarebbero ricordati di lui da lì a poco con la Grande Guerra. Scacciò le immagini dolorose che cominciavano ad apparirgli dinanzi ed allora corse a quella del matrimonio e rivide il vecchio calendario con la pubblicità del lucido da scarpe: aveva evidenziato in rosso il 3 giugno 1920 ed appunto in quella data si era sposato. Era bella la sposa, ma faticava a ricordarne il volto: gli sovveniva, per quanti sforzi facesse, solo un viso aperto in un sorriso, un viso piatto, solo i contorni ed una fessura scintillante di bianco, la bocca. Come poteva essersi dimenticato la fisionomia di sua moglie, perché anche in seguito, negli episodi in cui lei era presente, si intravedeva solo un'immagine sfocata e perché quando ne guardava la fotografia subito scordava l'aspetto di quanto gli era stato più caro? Era una domanda a cui non voleva dar risposta, anche se questa c'era ed era anche il motivo per il quale lui a trecentosessantanni era ancora lì, non una gioia, ma una condanna . Aveva visto a poco a poco morire gli amici, i conoscenti, poi i figli, i nipoti, i pronipoti ; infuriavano epidemie provocate dagli uomini e la gente cadeva per strada, si lasciava andare, scivolava accanto al marciapiedi nell'indifferenza generale di chi ancora sperava di vivere. E se ne era andata anche sua moglie, nonostante il patto scellerato che aveva firmato. Quella vicenda così dolorosa se la ricordava bene; la moglie si era ammalata senza speranza e tutto sembrava inutile; aveva girato ovunque alla ricerca di medici che potessero guarirla, ma senza successo. Una sera che, affranto, la vegliava accanto al letto di dolore si accorse di un ombra sulla porta della camera, un'immagine indefinita.

L'ombra si avvicinò al letto e lui le si parò davanti, “Lasciami fare, sono venuto a prenderla; è la sua ora.” “Prendi me, lasciala vivere.”

“Per te è troppo presto, ma quando sarà il momento mi rivedrai.

“Ancora un po' di tempo, ancora un po' di gioia insieme, ti prego…”

“Tu vuoi veramente bene a tua moglie, ma sai che il distacco prima o poi ci sarà, e non sarà meno doloroso di adesso. Questo è l'ordine delle cose ed io e te non ci possiamo far nulla.

 “Lasciami ancora qualche ora con lei, che la possa stringere, possa vivere in questo poco tempo l'emozione di una vita trascorsa insieme. Ti prego: il mio cuore deve dirle ancora tante cose…”

 “E va bene, ripasserò fra due ore, ma ad una condizione: tu vivrai tanto, sarai l'ultimo a lasciare questo mondo. Non c'è nessuna cattiveria in questo patto: tu hai chiesto di cambiare l'ordine delle cose e così potrai vedere le conseguenze di questa richiesta. Dimmi se sei d'accordo?”

 “Sì, anche se non mi interessa di vivere così a lungo, ma se questo è necessario perché tu la lasci in pace per un paio d'ore mi sta bene; invecchierò, ma molto di più degli altri, e forse non sarà così brutto.

 “Te ne accorgerai e presto comincerai a sperare che io venga da te.

E così riuscì a rinviare la morte della moglie di due ore; ricordava di come l'aveva tenuta stretta a sé in quel breve lasso di tempo, di come le aveva accarezzato i capelli, di come aveva sentito il battito del suo cuore rallentare sempre di più fino a fermarsi. Aveva provato un dolore indicibile, ma l'angoscia era cessata: aveva preso coscienza dell'ineluttabilità dell'evento, ma non poteva ancora supporre l'angoscia che avrebbe provato dopo. Gli anni passavano e intorno a lui la vita si spegneva; poco a poco aveva cominciato a invidiare chi se ne andava, si era esposto a ogni possibile pericolo, soprattutto durante l'epidemia, ma mentre tante giovani vite venivano falciate dal morbo lui procedeva imperterrito, con la morte solo nel cuore.

Aveva avuto un momento di speranza quando gli aveva fatto visita una sera l'ombra, ma questa gli aveva solo ricordato che per lui sarebbe arrivata con l'ultimo treno.

E così, giorno dopo giorno, se n'era stato sempre in stazione, nell'attesa di quel treno che non arrivava.

Girò il fianco: da tempo gli dolevano tutte le ossa. Fu allora che gli sembrò di sentire un fischio lontano; si scosse e provò ad ascoltare meglio: nulla, il silenzio assoluto. Poi lo udì nuovamente, sollevò il capo ed ecco che in fondo al binario veniva avanti una locomotiva con al seguito una sola carrozza.

Sbuffando si fermò davanti a lui. “E' l'ora” disse l'ombra sporgendo dalla macchina. “E' l'ora che così tanto hai desiderato.

Raccolse le ultime forze, salì i due scalini del vagone aggrappandosi alle maniglie, poi entrò nello scompartimento.

Si gettò sul divano: non si sentiva più stanco, ma avvertiva un crescente torpore. Reclinò il capo e sentì che gli occhi si chiudevano, ma prima, nitido, come fosse stato davanti a lui, rivide il volto della moglie.

“Si parte” mormorò l'ombra. Ma lui non rispose, gli occhi chiusi, il volto sereno, disteso, sembrava sorridere.

Il treno si avviò traballando e in breve scomparve all'orizzonte.

 

       

 

 
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