Ogni tanto, quando ho
tempo, mi piace riordinare le mie carte, stracciare quelle che non hanno più
nessun interesse, inserire in raccoglitori quei documenti che, a torto o a
ragione, mi sembra potranno avere una qualche utilità.
Generalmente, per
effettuare questo lavoro, approfitto di quelle giornate grigie e tediose che ti
costringono in casa; ieri è stata appunta una di queste e allora ho cominciato
a rovistare fra fogli, vecchie fatture già saldate, giornali quasi ammuffiti e aprendo
proprio uno di questi mi è scivolata fra le mani una fotografia ingiallita dal
tempo, dimenticata lì perché ritenuta, chissà quando, non più attuale. L'ho
osservata incuriosito: ritrae due giovani, un ragazzo e una ragazza, in piedi
su un prato verde, con uno sfondo di montagne coperte da fitti boschi.
Come in un film che
scorreva davanti ai miei occhi ho rivisto le immagini di un'epoca spensierata
ed ormai lontana, quella della mia giovinezza, perché quella fotografia
ritraeva me ed il mio primo amore, Marina, una ragazza che mi aveva attirato
per il suo carattere assai estroverso, non disgiunto da una femminilità ancora
acerba.
Non mi ricordo
esattamente l'anno in cui l'ho conosciuta, però ho chiara memoria del luogo: un
grazioso paesino di montagna in cui ero solito villeggiare l'estate con i miei
genitori.
Erano epoche assai
diverse dalle nostre, con meno auto e quelle che c'erano possono adesso far
sorridere per la loro semplicità; erano quasi tutte Fiat
(500, oppure 600), scatole di latta senza la benché minima comodità, ma che
permettevano ad una famigliola di muoversi e di iniziare a conoscere il mondo,
e in questo assolvevano bene al loro compito di mezzi di trasporto.
Gli alberghi erano pochi
ed allora la maggior parte dei villeggianti prendeva in affitto l'appartamento
dei valligiani che, per l'occasione, si adattavano a vivere nelle cantine.
Il ripetersi in altro
luogo della vita fra le mura di un alloggio, anziché nella camera di un
albergo, facilitava le conoscenze con i vicini, quasi sempre altri
villeggianti, e appunto quell'anno costoro, nel mio
caso, erano rappresentati da una famiglia di Milano, costituita da marito e
moglie, due figlie, la Nicoletta, più avanti nell'età e gia sposata, e appunto
la Marina, una biondina di neppure sedici anni.
Quando la vidi, mi
ricordo, sentii subito nascere in me un'inarrestabile simpatia per questa
fanciulla che poi avrebbe turbato i miei sogni di tante notti. Non era una
bellezza, almeno secondo i canoni estetici correnti, ma aveva una vitalità, una
gioia di vivere, che non poteva lasciare indifferente uno
come me, che, benché di poco più vecchio, ero, come si suol
dire, tutto casa e studio.
Da questo punto di vista,
era la piacevole scoperta della spensieratezza della gioventù che esercitava su
di me un fascino incredibile, era come immergersi nuovamente nella tipicità di
un'età come la mia, sacrificata, nel mio caso, alle dure esigenze di uno studio
costante, continuo e spesso avulso dalla realtà che mi circondava.
Facemmo amicizia fin da
subito, lei forse attratta da un giovane che aveva l'aria di essere più maturo
dell'età che portava; lunghe passeggiate durante il giorno, conversazioni quasi
sempre frivole la sera, due salti a ballare la domenica, e più stavamo vicini,
maggiore era la voglia di stringerla a me, di baciarla, di sentirla mia.
La notte era il momento
più brutto, perché non ero con lei; tardavo a prendere sonno e, quando questo
veniva, era tutto un accavallarsi di sogni, dove entrava sempre la mia adorata
Marina.
I giorni passavano e neppure
me ne accorgevo; era una sensazione stupenda non
ricordarsi del tempo.
Poi, una sera - e mi è
venuto in mente come se fosse accaduto da pochi giorni -
mentre conversavamo seduti su una panchina, ho osato e con la mano
destra le ho accarezzato il volto; mi tremavano le gambe e attendevo pavido la
sua reazione, ma lei non si scostò, si voltò verso di me e, con il suo più bel
sorriso, mi disse “Ti sei innamorato di me? Ne sarei felice.”
Il mio cuore prese a
battere forte, lunghi fremiti attraversarono il mio
corpo, e non riuscii a profferire parola; quasi inconsciamente avvicinai il mio
viso al suo e, lentamente, quasi in punta di piedi, le mie labbra andarono a
cercare le sue; fu un bacio breve, ma per me sembrò durasse un'eternità, tanto
era meraviglioso, tanta era la sensazione di felicità che entrava in me, un
appagamento non misurabile che non ebbi più occasione di provare.
Quel bacio non fu che il
primo; altri ne seguirono i giorni appresso, unitamente a casti contatti dei
nostri corpi, a carezze virtuose, ma che pure ci sembravano i segni di un
peccato, e così seppi che se per me lei era il mio primo amore la stessa cosa
era anche per Marina.
Era un amore timoroso di
non offenderci l'un l'altro, spingendoci in un campo,
quello sessuale, ancora per noi sconosciuto; a pensarci, mi viene da sorridere,
ma erano altri tempi e non è detto che fossero peggiori degli attuali.
Costruivamo insieme sogni di un futuro improbabile, con ricorrenti
frequentazioni anche dopo la villeggiatura, e ciò nonostante abitassimo
piuttosto lontani l'uno dall'altra, ma come il tempo, che non contava, anche la
distanza pareva non esistesse in quel mondo magico in cui ci eravamo tuffati;
vivevamo la pienezza della gioventù in un gioco che esulava dalla realtà che ci
circondava.
E' stato, anche
ripensandoci oggi, un periodo stupendo, unico, un'esperienza che non si sarebbe
più ripetuta.
Poi venne la fine dell'estate e
con essa la fine della villeggiatura; ci scambiammo
solenni promesse di rivederci, gli indirizzi di ognuno di noi furono trascritti
febbrilmente, ma già il richiamo alla realtà di tutti i giorni aveva iniziato
ad incrinare la magia del nostro mondo; avevo cominciato a dubitare della
possibilità di un seguito di quell'amore: la
distanza, i miei impegni con gli studi, l'impossibilità di poterla vedere ogni
giorno, come invece era mio desiderio.
Tutte quelle remore che
anche prima esistevano, ma che avevamo sepolto sotto le onde della nostra
passione, ora venivano prepotentemente a galla.
Anche lei era un po'
cambiata e quel suo sorriso radioso era ora opacizzato da una sottile vena di
tristezza, come chi sa che il tempo è cambiato.
Il giorno della partenza
ci siamo baciati per l'ultima volta, ma era un bacio con la passione attenuata
dalla consapevolezza che i giorni trascorsi non sarebbero più ritornati.
Dall'auto che partiva mi
ha gridato - Mi scriverai? Mi raccomando.
- Ti scriverò ogni
giorno, penserò sempre a te.
Ritornato a casa, le
scrissi una prima lettera, poi una seconda ed infine una terza, alla quale mi
rispose con un tono dolce, ma formale. Le inviai altre
sei lettere, poi, non avendo ottenuto riscontri, riposi la penna.
Non la vidi più, ne seppi
più nulla di lei; anche il ricordo si affievolì fino allo scomparire del tutto.
Riguardo la foto, mi si inumidiscono gli occhi, poi la strappo: i
ricordi, quando sono belli ed irripetibili, rattristano l'animo, ti fanno
sentire più vecchio, ti tolgono il respiro e la forza di vivere.