Il rimedio
di Renzo Montagnoli
Non c'è rimedio, stanco mi trascino lungo una vita che sempre più
mi allontana. Il tempo passa e nulla cambia, nulla di quanto speravo.
E' l'alba di un giorno livido
d'inverno, d'un grigio che sembra voler spegnere anche la debole luce del sole.
I soliti rumori di una città che si risveglia, auto che vengono messe in moto,
luci che si accendono, insomma una giornata come le solite, con i bimbi che
vanno a scuola e i pendolari che assonnati e incupiti ciondolano nel metrò.
Qualcuno parla,
soprattutto di calcio, della partita della sera prima, altri leggono i
quotidiani o fingono di leggerli, assorti nelle abitudini di una vita sempre
ripetuta.
Com'è possibile che gli altri non si accorgano del tempo che
passa, che non facciano nulla per rimediare alla vita insulsa che si conduce
senza il piacere di esistere?
L'altoparlante della
vettura ogni tanto scandisce le stazioni e allora alcuni si preparano accanto
all'uscita e quando il treno ferma scendono
rapidamente, contrastando la fiumana di quelli che salgono.
E' una varia umanità,
confusa in se stessa, anonima e rassegnata. Oggi il lavoro, quando c'è, questa
sera lo stesso percorso per tornare a casa, la cena con i precotti, poi il
divano a guardare uno spettacolo televisivo di cui non si serberà ricordo, e
quindi a letto, perché anche domani ci si deve alzare
presto per arrivare in orario in fabbrica, per avvitare i bulloni, per
ingrassare gli snodi, per arricchire i padroni.
Sono talmente anonimo che non mi conosco.
Sì, i padroni, loro sono
fortunati, perché arrivano in ditta con il Mercedes,
appena entrati in ufficio sono viziati dalle segretarie con il caffè e con i
giornali, tutti pendono dalle loro labbra.
Si sentono degli dei,
capiscono che i cosiddetti dipendenti sono la versione moderna degli schiavi.
Di sé dicono che vivono
solo per il lavoro ed è certamente vero, anche lì una vita ripetitiva, magari
con qualche trasgressione che presto finisce con il venire a noia.
Al mondo c'è chi comanda e chi obbedisce, ma tutti sono schiavi di
se stessi.
Più che mezzi di
trasporto questi sono treni che conducono ai lager e anche là c'era scritto che
il lavoro rendeva liberi, ma non era vero, così come non è vero che il denaro,
compenso del lavoro, renda liberi.
Guarda il caso del rag.
Novanta, sempre vestito di blu, impeccabile, con la stilografica d'oro infilata
nel taschino, ecco lo si direbbe un uomo felice, con una bella casa, una moglie
fedele e due figli belli e di sicuro avvenire.
Ha una ditta che produce
cuscinetti a sfere e, da quanto si dice, va che è una meraviglia.
Eppure…
Non ce la faccio più ad andare avanti, casa e ufficio, ufficio e casa,
non sogno più, non ho un ieri, né un oggi e neppure un
domani, tanto sono tutti uguali.
Dicevamo del rag. Novanta
che è insoddisfatto, che si è fatto un'amante, che fa dei giochetti con la Rina, la sua giovane
segretaria, ma che non ritrae più piacere.
Allora ha provato con la
cocaina, poi si è dato all'extasi e infine si è dato
la morte.
Sì, perché quella frenata
brusca, i viaggiatori sballottati, gli abbracci indesiderati per non cadere,
sono dovuti a un uomo che all'improvviso alla stazione Duomo si è lanciato in
mezzo ai binari.
Nella borsa, che da
sempre l'accompagnava e che prima del gesto ha lasciato cadere sul marciapiedi, c'era un foglio, una lettera, poche frasi,
incompiuta e non firmata che sto leggendo. Quell'intercalare di quanto ho scritto
fino a ora sono il contenuto del suo ultimo messaggio, quasi un epitaffio.
I passeggeri bestemmiano,
urlano perché arrivano in ritardo al lavoro, ma per rimuovere il corpo occorre
la presenza del medico legale e del procuratore. Dei due io sono l'uomo di
legge e attendo che arrivi questo medico del cazzo per andare in ufficio, anzi
ci stavo andando, ma quel disgraziato, anonimo e deluso, ha voluto un attimo di
notorietà.
Lo conoscevo? No,
assolutamente no, ma ho immaginato la sua vita, perché sono tutte uguali le
esistenze, magari su piani diversi, con portafogli più o meno gonfi, ma con
sempre presente l'incapacità di cambiarla.
Ora è là, sotto un telo,
conciato male, nient'altro che un nome e due date.