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  Racconti  »  Storie di paese Prima Serie  »  Nessun dorma! 27/01/2006
 

L'osteria era un perfetto campionario della varia umanità del paese e così accanto al farmacista, di giorno impettito e di sera compagno di bisbocce, sedeva il salariato, rotto dalla fatica del lavoro nei campi; fianco a fianco stavano poi i cornificatori e i cornuti e spesso interpretavano entrambi i ruoli.

Benché si formassero dei gruppi, quando l'argomento di uno diventava interessante si perveniva a una formidabile compattazione e allora, fra frequenti innalzamenti di voce, risate sguaiate e moccoli ben aggiustati, la serata proseguiva come una grande festa, in una vera e propria simbiosi collettiva.

Del resto, i personaggi non mancavano, con le loro storie, in parte inventate, sì che l'impressione era di trovarsi a una corte dei miracoli.

Prendiamo il Guercio, tale Annibale Chiocchetti, ma chiamato così per via di quell'occhio che gli mancava, perso in guerra, e sostituito con una sfera di vetro non ben fissata e che ogni tanto, sporgendo eccessivamente dall'orbita, gli cadeva sul tavolo, dove saltellava fra i bicchieri e il fiasco di vino. Se non fosse bastata la menomazione a connotarlo, c'era il suo acuto spirito di osservazione: nulla e nessuno sfuggiva al suo sguardo. La circostanza non sarebbe stata una gran cosa, se non fosse stata accompagnata dai coloriti commenti che uscivano dalla sua bocca sdentata.

Né si accontentava di argute e ridanciane osservazioni, ma si divertiva a coniare nomignoli di ognuno e, quasi sempre, del tutto azzeccati.

Così l'affossatore comunale Ludovico Bianconi, il più cornuto in paese, era conosciuto da tutti, lui compreso, come Tricorno, mentre sua moglie, ninfomane emerita, era chiamata Unapertutti. Non c'era cattiveria, però, in questa esaltazione delle disgrazie e dei vizi altrui, ma solo un eterno spirito da ragazzini che con i lazzi e gli scherzi evadevano la monotona realtà quotidiana.

A volte, tuttavia, lo scherno incupiva o rattristava il soggetto preso di mira e alla fine la risata degli altri lasciava un amaro in bocca, come quando un fanciullo scopre che la vita non è solo gioia.

 

Accadde così una sera d'inverno, fredda, nebbiosa più del fumo delle sigarette dell'osteria, e la vittima fu un uomo schivo, riservato, che nascondeva in sé la malinconia per un grande sogno spezzato. Giacomo Salami era raro che si vedesse in giro, se ne stava sempre ritirato in casa, con le persiane chiuse e l'unico segno certo della sua esistenza era dato dalle romanze d'opera che ascoltava in continuazione, tanto che molti si chiedevano come potesse essere così longevo il suo giradischi.

Le visite all'osteria erano del tutto sporadiche e quando vi andava era perché si sentiva più giù di corda del solito e allora affogava la sua disperazione nel vino.

Quella sera, come entrò, andò a sedersi al tavolo in angolo e ordinò un bel fiasco di quello buono.

Tutti sapevano della sua passione per la musica lirica, ma solo il Guercio era riuscito a scoprire proprio quel giorno il suo segreto: da giovane aveva avuto una promettente carriera da tenore, ma poi un problema alle corde vocali gli aveva stroncato voce e futuro.

Lo guardò fisso con l'unico occhio, fece con le mani agli altri cenno di zittire e gli disse

 - Caruso, come mai con noi? Nel locale non abbiamo musica; che ne dici, se ce la dai tu, se ci canti qualcosa?

Salami se ne stette zitto, tracannando in un sol colpo il bicchiere che aveva in mano.

- Dai, non aver paura, cazzo siamo tra amici che sanno, sanno tutto di te.

- Non sapete nulla e non potete capire.

- Insomma, non avrai paura a farci una cantatina, o tutte quelle meraviglie che si dicevano di te sono solo palle?

Ci fu un lungo silenzio, durante il quale il Salami prosciugò il fiasco, poi, con voce impastata e già alticcio, parlò – Dico solo che non sapete quel che dite. Mi avete chiamato Caruso, ma avrei potuto diventarlo, se la sorte non mi fosse stata avversa –  e si asciugò la bocca piagnucolando.

- Dai, bevi un altro goccio, che ti farà bene.

Gli allungarono un altro fiasco e Caruso cominciò a parlare, fra un bicchiere e l'altro: ricordi di una carriera ormai trascorsa, concerti nei principali teatri italiani, sogni che stavano diventando realtà, e poi quella malattia che gli aveva minato le corde vocali, riducendogli le possibilità di estensione della voce.

La serata, a differenza delle altre, stava prendendo un andamento tranquillo e melenso, e nel silenzio generale si udiva solo la voce biascicata di Salami.

Il Guercio, allora, batté le mani e, alzando il tono, disse – Facci sentire qualche cosa, non ci importa se la tua voce non è quella di una volta, dai, fallo.

L'uomo si levò in piedi, appoggiandosi con le mani al tavolo, giusto per non cadere – Il mio miglior repertorio erano le opere di Puccini e in particolare la Turandot, un capolavoro che voi nemmeno immaginate, una perfetta fusione fra musica, canto e trama. La compose prima di morire, anzi venne a mancare prima che fosse terminata. Se solo avessi ancora la voce, vi farei sentire, anche senza orchestra, la bellezza di un  brano che forse conoscete: Nessun dorma!

- Dai, canta come puoi, per noi; per il solo fatto che sei tu, andrà sempre bene..

- Davvero, non riderete?

- Ma no, figurati.

Salami si schiarì la voce, guardò gli astanti, aprì la bocca e fu un incanto.

La voce era sì leggermente tremante, ma sua l'interpretazione, la passione, la forza furono quelle che avrebbe riservato alla Scala o al Metropolitan.

Tutti ascoltavano rapiti quella melodia eterna e tutto andò bene fino a quando si arrivò al famoso acuto di “Vincerò” e quindi a romanza pressoché conclusa; Salami quasi si gonfiò prendendo fiato, ma nel momento di estendere tutta la voce venne fuori un suono sgraziato, una sorta di stecca in sotto tono.

Applaudirono comunque tutti calorosamente, ma il tenore, piegato su se stesso, piangeva a dirotto e quelle lacrime furono interpretate, malamente, come provocate dalla gioia per quell'ovazione.

Come al solito, si sbaraccò sul tardi e quando uscirono l'ultimo fu Caruso, che si avviò barcollando verso casa.

Il giorno dopo, nebbioso e freddo come il precedente, il barbiere, che aveva bottega sotto l'appartamento di Salami, notò che stranamente non c'erano romanze da ascoltare, ma poi ricordò che il tenore, quando si ubriacava, faceva riposare le sue orecchie e quelle degli altri per almeno ventiquattro ore,    

L'indomani, tuttavia, il silenzio cominciò a preoccuparlo, ne parlò con il sindaco, a cui stava facendo la barba, e questi riferì al maresciallo dei carabinieri che decise di entrare nell'appartamento.

In paese lo seppero subito e una piccola folla si radunò davanti al negozio del barbiere, tutti ansiosi di sapere.

Quando il maresciallo ritornò dalla visita dell'appartamento apparve costernato e riferì che, abbattuta la porta, lo aveva chiamato, senza ottenere risposta; allora era entrato, aveva guardato in cucina, in sala, dove aveva notato il disco della Turandot sul piatto del grammofono, poi era entrato in camera da letto e lì lo aveva trovato, impiccato a una delle travi del soffitto.

La sera, all'osteria, l'atmosfera fu greve, con gli avventori taciturni e incapaci di farsi una ragione di quel che era accaduto. Fu ancora una volta il Guercio che decise di rompere il silenzio - Ragazzi, che volete farci….La colpa è mia, non avrei dovuto invitarlo a cantare e fargli così ricordare i suoi tempi.

Intervenne allora il farmacista – No, non è colpa tua; Salami chissà quante volte ha avuto in animo di togliersi la vita, di porre fine al suo disagio; l'altra sera ha avuto l'opportunità di superare l'ultimo scoglio nel miglior modo per un artista, con un'ultima esibizione, con gli applausi di un pubblico incolto, ma sincero.

La serata finì lì e tutti se ne ritornarono a casa.

Il giorno dopo al funerale non mancò nessuno e, terminata la sepoltura, appresero dal maresciallo che il Salami aveva lasciato uno scritto, un testamento.

Quando lo lesse, gli astanti si rammentarono dell'intervento del farmacista, poiché tutti i dischi e il grammofono furono lasciati “agli amici dell'osteria”.

 

Sono passati molti anni, da allora, ma ancora, sulla parete dietro il banco, fra le coppe del torneo di calcio, i gagliardetti del Milan e dell'Inter, coperti di polvere, come le bottiglie della cantina, fanno bella mostra i 78 giri, unitamente a un vecchio giradischi ormai definitivamente andato. 

 

 

(da “Storie di paese”)

 

 

 

        

 

 

 

 
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